Ci accoglie Giovanni Maria Carli, studioso d’arte, nella quiete silenziosa della Biblioteca Ambrosiana. “Mi chiedete della mostra di Caravaggio a Shanghai,” inizia, con il tono calmo e la voce appena velata dalla polvere dei tomi. “Un gesto non semplice, ma necessario. L’arte italiana, in Cina, non è mai solo decorazione: è la nostra coscienza che si mostra.”
Mi racconta come sei opere originali di Caravaggio, provenienti dalle Gallerie Borghese, Uffizi, Barberini e collezioni private, abbiano trovato posto nel Museum of Art Pudong, tra luci ipermoderne e silenzi digitali. “Era come mettere un cuore antico in un corpo giovane,” dice Carli. “La Cina ha guardato. Ha capito poco, e proprio per questo ha guardato a lungo.”
La mostra ha raccolto più di 80.000 visitatori in pochi mesi, un numero straordinario che ha sorpreso persino gli organizzatori. “Un successo che non è solo quantitativo,” riflette Carli. “È il segno che la tensione di Caravaggio, la sua luce che ferisce, ha trovato un varco anche in un altro mondo, tanto diverso. E questo dice molto, sul potere dell’arte e sulla capacità delle immagini di farsi comprendere anche laddove le parole non arrivano.”
Ma è proprio qui, in questo sguardo cinese sospeso e sorpreso, che si apre una frattura culturale profonda, quasi ontologica. “La mostra è stata un confronto,” osserva Carli, “non solo tra due estetiche, ma tra due modi di intendere l’arte e, in fondo, l’uomo.”
A questo punto, Carli estrae da uno dei volumi accanto a sé un ritaglio di stampa: un nostro articolo pubblicato su AltriOrienti, intitolato Ritratto di famiglia. Lo porge con cura, come se contenesse una rivelazione. “Lo avete scritto. È una bussola per capire perché la Cina ha guardato così a lungo quei quadri. Non per capirli, ma perché erano altro. E quando ci si trova davanti a qualcosa di assoluto, l’unica reazione possibile è il silenzio.”
L’articolo descrive i ritratti ancestrali della tradizione cinese: dipinti su seta, atemporali, privi di emozione e di ombra, destinati alla venerazione e non all’ammirazione estetica. L’opera non è firmata, perché l’identità dell’autore non conta: conta il gesto collettivo, la funzione spirituale, la permanenza del legame tra vivi e morti. L’arte non come espressione, ma come rito.
“Ecco,” continua Carli, “portare Caravaggio a Shanghai ha significato far entrare la carne nella seta. Non un’immagine eterna, ma una ferita. Non un volto sereno, ma un corpo che soffre, lotta, si piega. Non un segno di continuità, ma un urlo nella solitudine del tempo. È stato uno choc. E lo è stato perché l’arte italiana, quella vera, non è fungibile. Non è replicabile. È assoluta.”
Il Fanciullo con canestro di frutta diventa il simbolo di questo corto circuito. “Guardatelo,” dice Carli. “La frutta è marcia, il tempo è entrato nell’immagine. La bellezza è già consunta, e il ragazzo lo sa. Per un cinese abituato all’armonia, questo è un memento mori che non consola: è un enigma che inquieta.”
Eppure, in quel turbamento qualcosa accade. Una guida cinese si sofferma sulle mani dell’Incoronazione di spine. Un anziano domanda: “È triste?” Carli sorride. “Domande così sono più vere di mille spiegazioni. È lì che l’arte fa il suo miracolo: quando interroga, non quando insegna.”
“Caravaggio non si può tradurre,” insiste Carli. “Non è un’icona rituale, è un urto. È l’anti-armonia, l’anti-cerimonia. È la luce che ferisce, il corpo che si espone. È quanto di più distante ci sia dalla tradizione pittorica cinese. Eppure… proprio per questo, si è fatto ascoltare.”
E qui, il nostro studioso apre una riflessione più ampia. “L’arte cinese racconta, non interroga. È un flusso ordinato, come un fiume che conosce il proprio letto. Non cerca l’abisso, non sfida il silenzio. È sapere che consola, non enigma che ferisce. È questa la differenza più profonda: la cultura cinese conosce i limiti – e Confucio lo insegna. Ma l’arte occidentale, la nostra arte più inquieta, li ignora. È vertigine. È stordimento.”
E aggiunge, quasi in un sussurro: “Anche la spiritualità è altra. In Cina è presenza silenziosa, principio di equilibrio, armonia cosmica. Da noi, è domanda che lacera. La spiritualità occidentale – quella che passa da Giobbe a Caravaggio, da Agostino a Simone Weil – è desiderio insaziabile, è un Dio che si nasconde, non che ordina. È ferita, non saggezza. E questo cambia tutto: perché mentre la pittura cinese cerca la continuità con il Cielo, Caravaggio mette il Cielo in discussione. Il suo Dio è presente solo nel buio, nell’urlo, nel sangue. E anche quando c’è, non consola mai.”
Nella Biblioteca Ambrosiana, queste parole scivolano con lentezza tra gli scaffali. “AltriOrienti ha colto un punto essenziale: la Cina non ha una mancanza di cultura visiva, ma un’altra grammatica. Là dove noi gridiamo, loro sussurrano. Dove noi cerchiamo la firma, loro cercano il legame. Portare Caravaggio lì è stato come mostrare un sogno spezzato a chi, da secoli, dipinge l’eternità.”
Poi si ferma un attimo. Il suo sguardo si posa di nuovo sul Fanciullo con canestro di frutta. “Ecco, forse tutto è in quel canestro. In quella frutta già sul punto di marcire. Per noi occidentali, è una domanda: può esserci bellezza anche nella fine, anche nella corruzione? È un enigma che nessun confuciano oserebbe formulare. Ma noi sì. È il nostro koan, il nostro paradosso. Perché dove l’Oriente cerca l’ordine del Cielo, noi fissiamo l’occhio nella materia che muore. E lì, in quel disfacimento, cerchiamo una forma di verità. Una luce che non salva, ma rivela.”
Un silenzio più denso cala tra gli scaffali. “Forse è questa la vera distanza: per la Cina, l’arte è una continuità. Per noi, un’interruzione. Loro parlano agli antenati, noi urliamo al nulla. Ma in quel nulla, qualche volta, qualcosa risponde.”
Poi Carli tace. Il suo sguardo torna ai vetri alti della sala, dove la luce pomeridiana filtra appena. Si alza con lentezza, raccoglie i fogli e richiude il volume che aveva lasciato aperto a metà. Il gesto è quieto, come se sapesse che ogni discorso, anche il più profondo, deve finire in silenzio.
“Dobbiamo saperci ritirare,” mormora. “L’arte vera resta. Noi passiamo.”
La lampada si spegne con un clic leggero. La Biblioteca Ambrosiana ritorna al suo respiro lento, fatto di carta, ombra e tempo. E mentre usciamo, ci pare che le parole di Carli non siano svanite, ma rimaste lì, tra gli scaffali antichi – come una frutta troppo matura, che ancora trattiene il sole.
Poi, mentre ci incamminiamo verso l’uscita, non resisto e gli pongo un’ultima domanda.
“Professore… e se avessimo portato in Cina il Cristo morto di Mantegna, maestro del nostro Rinascimento? Quel corpo irrigidito, freddo, col volto contratto… Il Dio fatto uomo che giace, tagliato in una prospettiva quasi diabolica, oscena, come visto da sotto il tavolo dell’umanità. Un Dio che non sembra più poter risorgere. Cos’avrebbero detto, i cinesi? Come avrebbero letto quella carne livida, in quell’acido verdastro che è già odore di decomposizione?”
Carli sorride. Ma non risponde.
Si limita ad alzare lo sguardo verso il soffitto affrescato, come se la domanda non fosse da sciogliere, ma da lasciare lì. In attesa.
Poi, con un cenno leggero, accenna al silenzio. E cammina via, lasciandoci con il peso – e il privilegio – di quella domanda.
la Mostra
Caravaggio, the wonders of the Italian baroque
5 giugno