Si chiama John Bateman.
Come Patrick, quello di American Psycho, ma scannato.
Stesso cognome, stesso Paese, diversa rovina.
Lui non uccide. Beve.
Lo abbiamo incontrato al Pogue Mahone’s un pub irlandese a Milano in zona Porta Romana.
Camicia firmata Brooke brothers, scarpe John Lobb, l’alito puzza.
È in Italia perché il suo boss è in Italia, ed il suo boss è in Italia perché il fisco italiano, con una nuova legge, gli permette di pagare le tasse in forma ridotta, anzi non le paga quasi.
Così Bateman si trova esiliato in un paese che non gli interessa, tra gente che non capisce, a vivere una vita che non ha scelto.
“Ci aspettavamo le bombe, fratello.
I russi, i cinesi, le testate nucleari.
Pensavamo a Taiwan, al Donbass, ai carri armati sulla Quinta Strada.
E invece… boom.
È esplosa l’America.”
Ride, ma con gli occhi lucidi.
Non è ironia: è alcolismo strategico.
“Sai cos’è il vero disastro?
Non è che non produciamo più.
È che non sappiamo più a cosa serviva produrre.
Abbiamo sostituito il lavoro con l’idea del lavoro.
Tutti occupati, nessuno utile.
Tutti pagati, nessuno capace.”
“Trump ora vuole riportare l’industria in patria.
L’industria navale dice, hai capito?
Ma oggi le navi le fanno i coreani.
Le fanno bene.
Costano meno.
Sai cosa ci vuole per fare una nave?
Competenze.
Gente che sa saldare una paratia con le mani e non con un tutorial su youtube.
E ci vogliono dieci anni.
DIECI.
E Trump che fa?
Si sveglia e dice: “Let’s build ships.”
Ma con chi, Donald? Con gli stagisti di Goldman Sachs?”
Beve. Tossisce. Ride di nuovo.
“Abbiamo mandato a casa gli artigiani e ci siamo tenuti i content creator.
E adesso ci meritiamo le navi che affondano ancora prima di varare.”
Poi si ferma. Si fa serio. Gli occhi diventano due pozzi di Wall Street dopo un crollo.
“Il sogno americano?
Non lo produciamo più da Reagan. Oggi si ferma al confine col Messico, dove un latino viene rispedito indietro da un ministro che non sa tenere un fucile, ma che sa benissimo firmare ordini di respingimento.”
“Il dollaro?
È un’allucinazione a corso legale.
Il debito?
È la vera esportazione americana. Pubblico e privato.
Lo vendiamo impacchettato in bei titoli tossici, e poi ci assicuriamo contro il loro fallimento.
Così quando tutto salta, guadagniamo lo stesso.
E le assicurazioni?
Pagano.
E intanto si pagano anche loro, in bonus, sul numero di contratti. Manager incapaci o corrotti pagati per mandare tutto a puttane.
Non importa se quei contratti sono merda.
Basta che siano tanti.
L’America vende il suo debito per mantenere i suoi consumi. E li fa pagare al mondo povero, alle sue periferie, periferie mi piace più di backyard … é un’espressione di Rocco; il professore saggio della Cattolica con cui bevo qualche birra e mi racconta Milano. Periferia d’Europa e dell’anima con quel sindaco verde e cemento.
Ride e tossisce. L’alito mi stordisce.
“Le periferie dicevo, le nostre adesso basta … vogliamo indietro quel poco che gli abbiamo dato.”
“Si fottano ora!”
“E sapete qual è la merda più grande?
Il secolo. Questo è il secolo di Trump.
Con i suoi giorni di borsa folli, irragionevoli, irresponsabili.
I giorni di Donald e Navarro.
Giornate talmente incoerenti da rendere tutti più poveri
e tutti un po’ più stronzi.
E noi là, a guardare gli indici salire come se fosse una festa,
mentre ci svuotavano i conti correnti dell’anima.”
“E intanto ci raccontano la favoletta della Rust Belt.
Gli operai dimenticati, gli Appalachi, JD Vance…
Quello lì, che ha scritto un libro che francamente non si può proprio leggere.
Un’autoassoluzione travestita da memoir, un cazzo di coglione con moglie in quota etnica in Ohio.
Si puliscono la coscienza con le lacrime degli altri, e poi se ne fottono.
Nessuno vuole davvero risollevare quei posti.
Li usano come fondale per i comizi e come scusa per le guerre commerciali.
Ma non ci torna nessuno, e nessuno li salva.”
“E poi non è che sia una novità, capito?
Già all’inizio del Novecento, dopo il Boom, il Massachusetts era una rovina.
Le fabbriche tessili chiudevano, le chiamavano deserti industriali depressi.
Hai presente Lowell? Fall River? Erano cadaveri col badge.
Cos’hanno fatto? Le hanno portate giù.
North Carolina. South Carolina.
Sempre più a sud, sempre più in basso.
Perché c’è sempre un fottuto sud del mondo dove buttare il lavoro e la merda.
Una specie di geografia della fuga.
Tu sali, e quello sotto paga.
Funziona così da cent’anni, e ora lo fanno anche con l’anima.”
Poi si ferma. Si fa più silenzioso. E dice la cosa più straziante.
“Sai qual è la merda più grande?
Non è che ho perso tutto.
È che ho guadagnato.”
“Qualcuno ci ha passato la dritta. Le pecore vengono fottute, noi no. Io sapevo dove sarebbe andata a sbattere.
E ci ho messo sopra i soldi.
Con il sorriso sulle labbra.
E adesso ho più soldi.
Ma sono più stronzo.
E soprattutto: più infelice di prima.”
“Non c’è niente di peggio che guadagnare dalla rovina e poi restare in piedi.
È come derubare un cadavere e sentire ancora il battito … woooow.”
(Beve ancora. Stavolta non brinda. Stavolta si lascia andare.)
“Sai cos’è?
Non sono nemmeno un uomo, io.
Sono qualcosa.
Una specie di rigurgito del sistema, un rutto o un peto, that’s the real question.
Galleggio. Non affondo.
Vivo sopra i cadaveri degli altri, e ci ho anche guadagnato qualcosa.
Li ho spogliati. Li ho rivenduti.
E poi ho usato i soldi per ubriacarmi.
E per cosa?
Per restare lucido abbastanza da capire che ho perso tutto… tranne la coscienza, forse.”
“Ecco la vera condanna.
Non essere un mostro.
Essere un americano con la coscienza ancora accesa, forse.
Uno che non riesce più a spegnerla nemmeno bevendo.”
“E allora quando mi rivedrete, non chiedetemi niente.
Non ho niente da offrirvi.
Solo un bicchiere.
E una verità.
La stessa che nessuno vuole sentire:
abbiamo smesso di produrre sogni.
Ora ci nutriamo di cadaveri.
E lo facciamo con profitto.”
(Un ultimo gesto. Si versa. Si alza appena. Alza il bicchiere come fosse un’arma spuntata.)
“Uno per la coscienza.
Uno per il cadavere.
Uno per il profitto.”
E poi si accascia.
Non con la rabbia.
Con la resa.
Il barista non si scompone.
Gli sistema la testa con un gesto antico, da infermiere dell’Impero.
“Tranquilli,” dice.
“È solo colpa.
Domani torna. Dice di nuovo tutto.
Ma ogni volta lo dice peggio.
Perché ogni giorno è un po’ più ricco, e un po’ più stronzo.”
Il pub torna al suo silenzio di birre sgasate e legno umido.
Poi, dall’impianto sonoro del locale, gracchia una cassa.
“Well, it’s one for the money, two for the show…”
“Three to get ready now go, cat, go…”
È Elvis.
Blue Suede Shoes.
La voce roca, lontana, rimbalza sulle pareti come un ricordo.
John Bateman accenna un sorriso. L’unico vero.
Poi chiude gli occhi.
“But don’t you… step on my blue suede shoes…”
La voce dell’America. Come era. Come voleva essere.
Una canzone spavalda, elegante, assurda.
Ora è un requiem dolce e scemo.
Un addio senza onori ma che classe.
14 aprile