Articolo ad uso dei pochi appassionati di diritto e politica internazionale. La tesi di chi scrive è che i referendum indetti dagli occupanti russi in quattro oblast, ovvero province, ucraine saranno un elemento di forte instabilità del legame sino-russo fino a minarne la stessa solidità.

La vulgata dei commentatori russi di fatti ucraini descrive il referendum di autodeterminazione attraverso i passaggi:

– annessione alla Russia

– pretesa di difendere il suolo russo con armi nucleari come stabilito dalla dottrina di difesa nazionale 

il meccanismo dovrebbe consentire all’autocrazia di Putin di minacciare/utilizzare il deterrente atomico, ottenendo il risultato minimo della sottrazione del 15/20% del territorio ucraino.

In queste stesse ore il ministero degli esteri cinese Wang Yi ha ricordato che i referendum sono illegittimi ed il rispetto dei confini inviolabili.

Veniamo ai timori di Pechino che possono sconvolgere le alleanze.

Si ponga il caso di scuola che la definita provincia ribelle di Taiwan scelga di seguire la stessa via, ovvero che decida di ricorrere alle urne per stabilire la propria indipendenza. Quale sarebbe il destino dei due paesi dalla rottura dello status quo? 

Il tema della condizione giuridica di Taiwan e dei rapporti con la Cina di Pechino è davvero complesso ed appassiona da decenni gli esperti di diritto internazionale, tanto è unica e soggetta a diverse interpretazioni.

I punti fermi: La Cina popolare di Pechino e la Cina nazionalista di Taiwan non hanno firmato un documento che pone fine alla guerra civile conclusosi nel 1950, in senso tecnico non è stato firmato nessun accordo di pace e le due entità si sono definite uniche e legittime Cina. L’Onu riconosce la sola Cina popolare di Pechino dal 1971, Taiwan è stata espulsa, ma mantiene rapporti economici e culturali con la quasi totalità dei paesi del mondo con delegazione culturali, politiche e commerciali. Detto ciò, la Cina aspira al ricongiungimento con Taiwan definita la provincia ribelle e promuove la politica per la sua realizzazione. L’uso della forza, nella dottrina di Pechino (legge anti secessione di Taiwan del 2005), potrebbe essere realizzata esclusivamente se l’obiettivo non potesse essere raggiunto pacificamente.

Negli ultimi anni l’opinione pubblica di Taiwan ha mostrato la volontà di mantenere lo status quo. In pochi a Taiwan credono al modello “due sistemi un paese” miseramente crollato ad Hong Kong e recenti sondaggi mostrano che meno del 2% vorrebbe il ricongiungimento con Pechino.

Negli ultimi trent’anni si è anche affermata un’identità taiwanese e solo un cittadino su 50 si dichiara cinese. Lo status quo rappresenta la condizione più gradita a Taiwan, che ha evitato di affrontare il tema dell’autodeterminazione desiderato dagli oltranzisti, ma che imporrebbe un’accelerazione della crisi ponendo Pechino di fronte ad un dilemma esistenziale: occupazione manu militari o desistere a dispetto di settant’anni di propaganda unionista.

Gli umori dei taiwanesi possono sempre cambiare, così gli uomini di Xi Jinping guardano con preoccupazione la strumentalizzazione del principio della autodeterminazione voluto da Putin per legittimare l’occupazione ucraina in aperto contrasto con il diritto internazionale, quello stesso diritto che stabilisce l’inviolabilità della pretesa di Pechino su Taiwan in virtù della risoluzione sull’unica Cina delle Nazioni Unite.

Come ha osservato l’analista Max Ferrari, non deve sorprendere il cordiale incontro tra il ministro degli esteri Wang Yi ed il segretario della Nato Nato Jens Stoltemberg, nella dichiarata ricerca di nuovi punti di contatto in un’ottica di stabilità globale.

24 settembre

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