Una volta, Internazionale era una rivista intelligente.
Non “di sinistra”, non “di destra”, ma semplicemente curiosa. Era il luogo in cui si potevano leggere — in traduzione impeccabile — articoli del New Yorker, del Guardian, di Le Monde Diplomatique, di Haaretz o Foreign Affairs, messi uno accanto all’altro come bottiglie in una buona enoteca. Diversi, raffinati, non sempre d’accordo. Talvolta acidi, talvolta secchi. A volte sbagliati, ma sempre vivi.
Poi, a un certo punto — diciamo intorno al 2018, ma la data è opinabile — qualcosa è cambiato. Si è cominciato a notare un certo odore di incenso morale. I titoli erano sempre dalla parte giusta, le foto erano tutte inclusivissime, le cause tutte già vinte in partenza, le minoranze tutte esatte. Non più un pluralismo di voci: ma un monologo liturgico, in cui ogni settimana si assisteva alla predica del giorno. Un sermone ambientale, un’omelia migrante, un rosario transfemminista. Tutto vero, per carità. Ma anche tutto un po’ esatto, troppo esatto. Come se la realtà dovesse rispondere a un protocollo etico ISO 9001.
E così eccoci qui: Internazionale, oggi, è il bollettino illustrato del conformismo cosmopolita progressista. Con copertine degne di una startup woke, interviste a tutte le attiviste giuste, articoli sulla supremazia morale del compost, e nessuna, ma proprio nessuna, voce contraria.
Il mondo, secondo la redazione, si divide in due:
– da una parte Greta Thunberg, Alexandria Ocasio-Cortez, i collettivi non-binari e i pastori Saharawi,
– dall’altra parte: i maschi, le frontiere, Israele, la plastica, la NATO, il PIL, e ogni dubbio.
Il lettore, se non si adegua, non è più stimolato — è corretto. Anche la semantica è mutata: non si “analizza”, si “celebra”; non si “descrive”, si “denuncia”; non si “critica”, si “disvela”. Ogni reportage è una supplica; ogni articolo, un esorcismo; ogni firma, un apostolo. Un tempo ti faceva viaggiare. Oggi ti dice come devi pensare. Un tempo era una finestra sul mondo. Oggi è una lavagna.
Ma una cosa, almeno, resta identica: il nome. Che però oggi suona un po’ ironico: Internazionale, sì — ma del partito unico della virtù.
Ma non fermiamoci alla superficie. Perché l’Internazionale nuova maniera, con le sue copertine solidali e i suoi editoriali moralmente infallibili, non è solo noiosa. È anche profondamente reazionaria, nel senso più perfido del termine. Dietro il progressismo prêt-à-porter, c’è un autoritarismo emotivo, un ricatto psicologico permanente: se non ti commuovi per la ragazzina migrante con la t-shirt arcobaleno, sei un mostro. Se hai dubbi sull’ennesimo reportage dalla Palestina con i bambini che giocano tra le rovine, sei complice. Se chiedi “ma chi paga?”, sei un piccolo borghese egoista, probabilmente eterosessuale. E bianco. E maschio. Soprattutto maschio.
Ogni settimana, la redazione ci offre un ventaglio di opzioni morali che vanno da Angela Davis a una versione woke di San Francesco d’Assisi.
Mai, dico mai, un articolo che provi a spiegare perché un contadino ungherese vota Orbán. O cosa pensa veramente un poliziotto francese delle banlieues.
No: troppo pericoloso. Troppo ambiguo. Meglio restare nel recinto sicuro delle lacrime certificate, delle lotte approvate, delle oppressioni con codice a barre.
È l’Internazionale dei sopravvissuti selezionati, dei colpevoli in eterno, delle vittime per vocazione. Un circo barnum dell’empatia obbligatoria, dove ogni evento del mondo è riscritto secondo il decalogo emozionale:
– L’Occidente ha torto.
– L’alterità ha ragione.
– L’identità è reato.
– La complessità è sospetta.
– Il sarcasmo è fascismo.
– Hamas terrorista? Si … però
E così il lettore, più che informato, è rieducato. Non più cittadino curioso, ma credente penitente. Come nei gulag del pensiero gentile, tutto è concesso tranne una cosa: dubitare.
Dubitare delle ONG? Blasfemia.
Dubitare delle statistiche sul clima? Eresia.
Dubitare dell’immigrazione di massa? Crimine contro l’umanità.
Anzi, chiunque chieda “perché?” rischia di essere denunciato a pagina 34, tra una poesia sull’utero e una recensione di documentari queer ambientati in Groenlandia.
Ma il vero colpo di genio — qui bisogna riconoscerlo — è la rubrica delle lettere.
Un tripudio di autoflagellazione borghese:
– “Sono una donna bianca cisgender e ho paura di aver offeso un collega non-binario, cosa posso fare per espiare?”
– “Sono cresciuto in una casa con il bidet, ora vivo in Canada: è una forma di colonialismo?”
– “Mi sento colpevole perché ho cucinato un cous cous senza consultare una comunità maghrebina locale.”
E la risposta, ovviamente, è sempre la stessa:
Chiedi scusa. E abbassa la testa.
Ma il capolavoro — l’autoritratto involontario della deriva — è l’ultimo numero.
In copertina, campeggia un gigantesco “SÌ” colorato di rosso e giallo. Non c’è bisogno di spiegazioni: è quel “sì” lì. Quello del voto. Della parte giusta.
La rivista Internazionale si fa improvvisamente nazionale. Anzi: parlamentare. Una specie di comitato elettorale con grafica Bauhaus.
E tu, lettore, che magari speravi di leggere un pezzo del Süddeutsche Zeitung sulla crisi cinese o una lunga inchiesta della New York Review of Books sull’Ucraina, ti ritrovi catapultato nella newsletter di una ONG di zona 3. Con il compito non solo di informarti, ma di votare bene. Astenersi ambigui, indecisi e relativisti.
Poi abbiamo la pubblicità, quella del lusso e di giornali patinati.
Retro di copertina Chanel, Blue di Chanel, un profumo. Sfoglio ancora. Pagina quattro Instagram chiede una normativa europea che preveda la verifica dell’età a chi scarica le applicazioni dei cellulari, nota bene il proprietario è Zuckerberg, il cui concetto di privacy ricorda quella di una puttana di Angeles City. A pagina sette abbiamo una banca che si dice migliore delle altre. Si dichiara tua amica. Inatteso. Non mi fido. Mi fermo un attimo. Devo capire, digerirlo ed avere la lucidità di affermarlo.
Internazionale è il moderno Tazebao di tradizione maoista, ma con la pubblicità del lusso a finanziarlo.
La faccenda mi fa girare la testa prima dei coglioni.
Ma non è finita quì.
Il colpo di teatro è in quarta di copertina.
Ancora pubblicità.
Rolex.
Sì, proprio Rolex.
Cinque fotografie patinate: cinque esseri umani (uomini, donne, liquidi, poco importa) che “proteggono il pianeta”. Riconosco James Cameron, riconosco Leonardo DiCaprio, regista e star del Titanic per intenderci. Poi appare una donna di colore, vestita in modo vistoso. Non la conosco. Non la voglio conoscere. E soprattutto — non mi sento in colpa per questo.
Poi due subacquee. Due paladine degli abissi. Due Ninfe di Cousteau che mi spiegano, con sguardo ieratico, che il mondo si salva con le immersioni in acque profonde e un Rolex al polso. E io, sinceramente, sono esausto.
Perché qui non siamo più nel territorio dell’ipocrisia. Siamo nel kitsch morale totalizzante. Nel camp da crociera ecologista. Nella Disneyland del bene a tempo determinato, con testimonial firmati e santini sponsorizzati. È il cortocircuito perfetto: una rivista che predica la decrescita, la giustizia sociale, il riscatto dei popoli oppressi… e che ti consiglia, nel retro, un orologio da 13.800 euro per salvare il pianeta in apnea. Chi può permetterselo? Solo chi non ha nulla da dire, ma molto da spendere.
E allora basta. Non ce la faccio più a sopportare questo teatro dell’armonia forzata, dove ogni gesto deve essere etico, ogni articolo salvifico, ogni pubblicità una catechesi sostenibile. C’è più verità politica in un vecchio Charlie Hebdo che in cento pagine di Internazionale post-2020.
E più dignità in un orologio rotto che in un Rolex subacqueo indossato per compassione planetaria.
9 giugno