“La Cina non si piegherà mai al dispotismo tariffario.”
Così tuona il China Daily,
Il contesto? L’ennesima escalation della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che ormai non è più un conflitto su acciaio e microchip, ma una narrazione epica in cui i dazi diventano giudizi morali, e ogni documento di politica estera ha il tono di un monologo teatrale.
Trump, con l’eleganza di un doganiere eletto imperatore, ha portato le tariffe sulle merci cinesi al 125%, concedendo però 90 giorni di sospensione alle altre nazioni. Un gesto che ha il sapore del ricatto affettuoso: “non siete voi il problema… per ora.”
La Cina ha risposto con tariffe all’84% e una lista nera aggiornata di aziende americane. Ma soprattutto ha pubblicato un white paper – documento serio, intenso, solenne – che invoca la storia, la giustizia e la resilienza di un popolo che non si piega e non dimentica. È la Cina che si guarda allo specchio e si vede epica. È la voce del Partito che si eleva con grammatica formale e visione millenaria.
Mentre scriviamo il caos regna sui mercati e nonno Trump alza, riprende e sospende le tariffe a mezzo mondo in un crescendo degno da un intervento da trattamento sanitario obbligatorio, ma la cosa diventa complicata quando lo stesso ciuffone ha decapitato la sanità statunitense ed i matti sono tutti a spasso ed assunto al Commercio.
Forse la vera scena interessante si apre fuori campo, dove i riflettori illuminano il cosiddetto Sud Globale. Vietnam, India, Brasile, Cambogia: paesi che ora si trovano a dover scegliere, o almeno a non poter più fare finta di niente. Le nuove tariffe statunitensi sono un invito poco cortese a dichiarare il proprio orientamento, la propria fedeltà … ops … volete finanziare il nostro debito? Se è accorto addirittura il Corriere della Sera odierno che se ne uscito con questa rivelazione (?!).
In mezzo a questo gioco di pressioni e posizionamenti, si distingue una Cina che non è proprio Cina: Hong Kong. Qui, tra un grattacielo e una bancarella, tra inglesismi vintage e mandarinismi imposti, si assiste con un certo distacco. Il South China Morning Post si fa interprete di una consapevolezza ambigua, più analitica che militante. Hong Kong è l’osservatore riluttante, il figlio di due mondi che non si riconosce in nessuno, ma non può fare a meno di essere serva di Pechino e dei suoi sgherri travestiti da amministratori locali. Ma la città ha vissuto abbastanza globalizzazione da sapere che il vero potere oggi si misura in container (ne abbiamo scritto tempo fa definendolo il mattone del commercio globale), più che in carri armati. Se Pechino recita il ruolo della vittima resistente, e Washington quello dello sceriffo in cerca di applausi, Hong Kong resta ad osservare ed aspetta.
Armando – 60 anni, ferrarese trapiantato a Hong Kong dai tempi in cui i fax erano più importanti dei follower – osserva il mondo con lo sguardo di chi è prossimo alla pensione e nessuna voglia di farsi coinvolgere in guerre ideologiche. E’ in viaggio di lavoro a Milano e bestemmia il Salone del design, che ha costretto a dormire a Bergamo perché a Milano non si trovava una stanza d’albergo.
Lo raggiungiamo al Parietti, nella città alta dove ha prenotato un tavolo e ci sta aspettando. Sta bevendo un prosecco e legge il South China Morning Post in versione digitale e commenta lento, in un ferrarese che ha resistito a quarant’anni di Asia:
“Mo va’ là … Chi l’avrebbe mai detto che, a fin di carèra, m’avrìa da star dré a ‘na guerra tra chi la Cina la vōur par forza e chi la Cina l’è stê trop a la vòlta. Gli americani fan i tamberlàn – i gradassi, ‘t capî? – e i cinéś i fan i martîr…” mi sorride di traverso … Il mond al g’ha bisògn ed calmêś – di calma, non di dazi. E mo, sincerament, al saria ora che ‘l container al vagh da sóul, senza tanti padroni.”
“Basta parlare ‘dò lavor, adess parlem d’in cos’ piò bèl: che se magna?”
10 Aprile
Il Parietti di Bergamo
https://www.chinadaily.com.cn/a/202504/09/WS67f66616a3104d9fd381e6a2.html