Ultimi tra gli ultimi, i rohingya del Myanmar sono tra i popoli più perseguitati del mondo.

In un paese che fa della diversità una caratteristica peculiare della composizione etnica, si contano oltre centoventi etnie riconosciute, i rohingya rappresentano un’eccezione. Sono tanti, oltre un milione, ma non sono riconosciuti cittadini birmani da una specifica legge del 1982. Non possono possedere dei terreni e non sono liberi di viaggiare, non hanno un passaporto e non potendo avere nulla rimangano i più miserabili in un paese tra i più poveri del mondo. La propria condizione li ha fatti ribellare al potere statale, ora democratico, ora della giunta militare e da sempre sono stati considerati un pericolo all’ordine costituito.

L’origine di questo gruppo etnico rimane avvolta dal mistero, forse dal Bangladesh o dall’India, parlano una lingua indo-ariana e più di ogni altro diversità sono islamici in un paese dove i buddisti sono il 90% della popolazione. A raccontarla con una certa libertà, dimenticandosi della questione religiosa, i rohingya ricordano le popolazioni rivierasche di lingua italiana sulla costa iugoslava al termine della seconda guerra mondiale.

Negli ultimi dieci anni la crisi umanitaria si è acuita, si è formata una milizia rohingya che lotta per la sopravvivenza, ma la maggioranza ha scelto la fuga nei paesi confinanti, dal Bangladesh fino alle coste della Malesia, dove l’UNHCR, ovvero l’agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite ha censito oltre centomila persone.

La Malesia però non ha mai aderito alla convenzione sui rifugiati di Ginevra del 1951, utile da chi fugge da una guerra ed una persecuzione, e fatica ad accettare una moltitudine priva di passaporto e cittadinanza per una severa legge come l’Immigration act  1959/1963.

La solidarietà islamica, che sarebbe un pilastro della fede del Profeta, pare non essere la linea guida degli interventi a tutela dei fuggitivi. Nel 2020 il Corriere della Sera riportò la notizia di profughi rohingya puniti con la fustigazione a seguito dell’ingresso illegale nel paese ed a cinque anni di carcere, pena poi sospesa a seguito della pressione degli organi di stampa internazionale. Un recente report di Human Rights Watch ricorda il degrado dei campi di detenzione malesi e la morte di oltre centocinquanta persone nel solo anno solare 2022.

L’Italia piange davanti alla morte in mare di centinaia di persone e la trasforma in colpa collettiva, l’Asia islamica ci ricorda che esiste altra civiltà – la stessa dei clandestini che trovano la morte nei nostri mari – che poco perdona e concede alla sofferenza dei propri fratelli di fede.

7 aprile

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