A Harbin, città glaciale del nord della Cina, si sono recentemente conclusi i Giochi Asiatici Invernali. Il ghiaccio, però, non era solo nelle piste o nei palazzetti: scorreva anche nei cavi della rete, nelle fibre ottiche silenziose, tra un pacchetto TCP/IP e l’altro. La Cina, come spesso accade nel suo teatro invisibile, non ha atteso la fine dei giochi per rivelare l’altra competizione in corso: quella cibernetica.
Secondo un rapporto pubblicato dal National Computer Virus Emergency Response Center, l’infrastruttura digitale dei Giochi è stata bersaglio di oltre 270.000 cyberattacchi provenienti dall’estero, tra il 26 gennaio e il 14 febbraio. Il 63,24% – con precisione matematica che pare concepita per una nota diplomatica più che per un algoritmo di difesa – avrebbe avuto origine negli Stati Uniti. Seguono, in ordine decrescente e silenzioso, Singapore, Paesi Bassi, Germania, Corea del Sud.
Il dato più curioso – o forse più utile – è che la maggior parte degli attacchi sarebbe transitata per host della piattaforma DigitalOcean, società americana di servizi cloud, infrastruttura amata tanto dagli startupper quanto dagli hacker. Nulla viene detto circa l’attribuzione precisa: nessun nome, nessun gruppo, nessun “APT” noto. L’attacco, insomma, è un campo lessicale più che un campo di battaglia.
Ma che significa oggi un attacco informatico contro un evento sportivo? Qual è il senso simbolico, oltre che tecnico, di questa cifra nuda e precisa – 170.864 – sparata come un j’accuse verso Washington?
In primo luogo, c’è l’ovvio: il messaggio che la Cina vuole consegnare alla comunità internazionale è limpido. Non siamo il drago che infiamma il mondo virtuale – come vuole certa narrativa occidentale – bensì il custode ferito, la vittima che ancora una volta registra silenziosamente l’aggressione. Il tono non è incendiario. È amministrativo, ministeriale, da gazette officielle. Ma il destinatario – l’opinione pubblica globale – è chiaro.
La scelta del China Daily, l’organo di comunicazione in inglese del Partito-Stato, conferma l’intenzione di non parlare “ai propri”, bensì agli altri: quegli altri che sono sospesi tra dubbio e fedeltà, tra la paura della Cina e l’imbarazzo per l’Occidente.
Dall’altra parte, gli Stati Uniti – ammesso che siano davvero “dall’altra parte” in questo teatro – risponderanno che gli attacchi cibernetici sono per loro una “attività condivisa da attori non statali”, che l’attribuzione è complicata, che i server cloud sono come piazze pubbliche in cui ognuno può urlare travestito. E, a ben vedere, non hanno torto.
Ma proprio qui si gioca la partita: nell’ambiguità semantica tra origine tecnica e intenzione politica. In questo spazio opaco – dove un pacchetto dati può essere tanto un attacco quanto un test, tanto un errore quanto un messaggio – la Cina ritaglia il suo ruolo: potenza offesa ma vigile, ferita ma razionale, mai isterica.
A ben vedere, i Giochi Asiatici Invernali sono solo il palcoscenico. Il vero teatro è quello delle percezioni. Ed è un teatro antico quanto Sun Tzu. Mostrarsi vulnerabili è, in fondo, una forma sottile di forza. Trasformare un’anomalia tecnica in una narrazione politica è arte diplomatica più che protocollo informatico.
Così, nella neve di Harbin e nel silenzio criptato dei suoi datacenter, si è giocato un altro tipo di medaglia: quella della legittimità morale nel cyberspazio. Un gioco più freddo, più invisibile, e forse molto più pericoloso.
Nel mondo che viene – multipolare, cloudificato, simulato – la potenza non si misura più in portaerei ma in log delle intrusioni, in percentuali di IP ostili, in dichiarazioni calibrate da un portavoce il giovedì mattina.
È l’età dei Giochi, sì. Ma non quelli olimpici.
Quelli delle ombre.
26 aprile