«Les Américains ont beaucoup de moyens mais peu d’idées. Nous avons beaucoup d’idées mais peu de moyens.»
— Bernard Tapie, attore in Hommes, femmes, mode d’emploi (Claude Lelouch, 1996)
George Clooney legge la notizia nella quiete aristocratica del Lago di Como, tra il riflesso dell’acqua e il profumo del caffè appena fatto. Sfoglia svogliatamente un giornale americano con le maniche arrotolate, come se cercasse una sceneggiatura che non ha più voglia di interpretare. Poi si ferma. Rilegge il titolo. Sbuffa. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, Woody Allen, in vestaglia e con gli occhiali appannati, legge la stessa notizia nel suo appartamento dell’Upper East Side. Annota una frase in un taccuino, forse per un film che non girerà mai:
“Trump tassa i sogni. Soprattutto se in lingua originale.”
È così che comincia questa storia. Non con una dichiarazione ufficiale, ma con due sguardi — uno disincantato, l’altro ironico — rivolti verso un’America che ora vuole proteggere anche i sogni.
Donald Trump ha appena annunciato un dazio del 100% su tutti i film stranieri importati negli Stati Uniti. Motivo ufficiale: salvare Hollywood dalla concorrenza sleale delle produzioni internazionali. Motivo reale: aggiungere un altro mattone al suo muro — stavolta non sul confine, ma nell’immaginario. L’annuncio è arrivato come una delle sue battute migliori, di quelle che sembrano uno scherzo ma poi diventano politica. Donald J. Trump, nel suo ennesimo ritorno alla scena pubblica, ha dichiarato guerra non solo ai chip, alle auto elettriche e alle batterie cinesi. Oggi il bersaglio è l’immaginazione.
L’industria cinematografica americana, dice Trump, sta vivendo una “morte molto rapida” a causa degli incentivi stranieri che attraggono le produzioni lontano da casa. Come se Casablanca fosse stato girato in Marocco per colpa delle tasse.
“VOGLIAMO CHE I FILM SIANO PRODOTTI DI NUOVO IN AMERICA!” ha urlato maiuscolo, dimenticando che da sempre l’America li ha girati nel mondo, proprio per raccontarlo. Ma la nostalgia è più forte della logica. Il mondo è diventato una commedia grottesca dove le dogane si applicano alla fantasia, e la burocrazia entra anche nella post-produzione. Ma c’è un dettaglio che Trump dimentica: il cinema non è mai stato un prodotto nazionale. È sempre stato un prodotto planetario, errante, contaminato. Hollywood, dopotutto, è fatta di esuli. Europei, messicani, asiatici, africani. Gente che ha portato con sé le storie, i paesaggi, i traumi, i miti. Chiuderle fuori è come chiudere le finestre in una stanza che già fatica a respirare. Più della radio, più della psicoanalisi, più della televisione, è stato il cinema a parlare al Novecento. A costruirne le emozioni, i sogni, le paure, i volti. A insegnare al mondo a piangere nello stesso momento, anche da culture opposte. Il cinema è stato l’esperanto del sentimento, l’unica lingua veramente globale, prima ancora dell’inglese.
Non si trattava solo di intrattenimento. Si trattava di educazione affettiva, di visione collettiva, di estetica della vita. Il mondo cresceva mentre Ingrid Bergman diceva “suonala ancora, Sam”, o mentre Charlie Chaplin inciampava nel destino. Lo schermo era specchio, confessionale e oracolo. In sala si entrava in silenzio e si usciva diversi. E tutto questo accadeva perché il cinema si muoveva. Perché cercava location reali, cieli veri, lingue non doppiate. Perché voleva toccare il mondo, non riprodurlo in uno studio climatizzato.
Il protezionismo culturale, va detto, è una contraddizione in termini. La cultura, per sua natura, non si protegge: si espande, si contamina, si reinventa. Tentarne la difesa con dazi e barriere è come costruire un ombrello contro la pioggia dell’anima. Trump, con il suo decreto da vecchio impresario dell’Atlantic City, non sta difendendo Hollywood: sta tentando di ibernarla. Come se l’immaginario potesse essere confinato dentro uno zip code, come se una produzione ambientata in Nuova Zelanda fosse una minaccia all’orgoglio nazionale.
Ma non è così che funziona l’immaginazione. Non funziona per latitudine, ma per vertigine. Le scene che ricordiamo – dai deserti di Zurlini alla campagna di Angelopoulos, dai giardini del Conformista al silenzio dello Spirito dell’alveare – non sono localizzabili, sono universali. Perché il cinema non si fa dove si nasce, ma dove si sogna meglio.
E poi c’è quella scena. Quella che ci salva tutti.
Nel finale di Nuovo Cinema Paradiso, Giuseppe Tornatore mette insieme tutti i baci che erano stati censurati nel piccolo paese siciliano in cui Totò era cresciuto. Li aveva raccolti il vecchio proiezionista Alfredo, uno per uno, nascosti come lettere d’amore mai spedite. E li restituisce, anni dopo, come dono muto ma travolgente. Quel montaggio non è solo una carezza alla memoria: è un atto di resistenza. Di fronte al moralismo, alla censura, alla miseria del potere che decide cosa si può sognare e cosa no, il cinema risponde con un collage di desiderio. Un’orgia pudica di bocche che si sfiorano. Un inno al non detto. Alla pelle. Alla libertà.
Trump può tassare le importazioni, ma non può tassare quei baci.
Non può tassare ciò che succede nella testa di chi la guarda. Non può imporre dazi sul batticuore, sul ricordo che si attiva, sull’infanzia che torna, sul tempo che si ferma. Perché il cinema – quello vero – non lo si consuma, lo si vive. E non c’è nulla che l’Ufficio delle Entrate possa registrare, se non il silenzio dopo i titoli di coda.
Pensiamo a questo finale.
Una sala vuota, con poltroncine rosse un po’ lise, odore di moquette umida e silenzio prima del rullo del proiettore. Fuori, una città qualunque: Detroit, Budapest, Parigi, Bangkok. Dentro, sullo schermo, scorrono le immagini di un film iraniano girato in Georgia, scritto da un francese, prodotto da un americano. Un film che non passerà mai nei multiplex, ma che qualcuno ha deciso di mostrare — anche solo per pochi. Anche solo per sé. Nella penombra, siedono un uomo ed una donna. Forse siamo noi, reduci di una civiltà che ha imparato più dal cinema che dai libri di storia. Guarda il film con occhi di chi ha visto sfuggire la bellezza e sa che non muore mai del tutto.
Fuori dalla sala, il mondo continua a discutere di tariffe e sovranità culturale. Ma dentro, la macchina da presa avanza lentamente verso un volto. Una carezza, uno sguardo, una ferita. E in quel momento tutto torna: il Novecento, l’adolescenza, le notti d’estate, le città mai visitate, le lingue mai parlate, gli amori rimpianti e mai vissuti, mi stai leggendo vero?
Il cinema è ancora qui.
Con o senza l’America.
Con o senza Trump.
Con o senza spettatori.
Perché ci sarà sempre un’ultima proiezione, da qualche parte.
E sempre qualcuno pronto a guardarla come fosse la prima volta.
The End.
(Per ora.)
6 maggio
Avendo disperata necessita di bellezza … invitiamo l’ascolto di questa pagina di Ennio Morricone