Siamo stati chiamati da un amico. Uno di quelli che non parlano mai per parlare, ma che ogni tanto ti fanno un cenno, una telefonata breve, e tu capisci che c’è qualcosa da ascoltare. Ci ha dato appuntamento a Milano, in via Paolo Sarpi, nel cuore della Chinatown più grande d’Europa. Ma lui, il nostro amico, viene da Prato. E a Prato ha vissuto tutto: il crollo del tessile italiano, le cessioni aziendali, l’invasione pacifica e poi opaca del capitale cinese. Lui stesso, oggi, lavora ancora là dentro. Non ha più un’azienda, ma continua a fare il mestiere di prima, con lo stesso ritmo, lo stesso sapere, ma alle dipendenze di chi, un tempo, si presentò come acquirente.
«Sono come quelli della Storia della mia gente» ci dice. «Solo che qui è tutto più mescolato. I cinesi ci hanno comprato tutto, ma non ci hanno cacciato. Solo che adesso si fa come dicono loro.»
Nel retro di un ristorante sobrio, che non figura sulle mappe gastronomiche, ci racconta una storia che sembra uscita da un romanzo, e invece è solo una cronaca taciuta. La “Cina di Prato”, quella che tesse senza sosta, giorno e notte, e che poi – con la stessa silenziosa determinazione – si fa anche mafia. Non è solo una questione di sfruttamento o di evasione fiscale. È una rete. È un’altra legge. È un’altra città sotto la città.
Il nostro amico ci racconta di pacchi che viaggiano senza traccia, di fornitori imposti, di “grucce” che sono solo la punta dell’iceberg. Di faide fra clan che si giocano un bottino che non è mai fatto d’oro, ma di controllo. Controllo sul tempo, sulle rotte, sugli uomini. Di colpi bassi, incendi, ritorsioni. Di uno che è tornato dalla Cina solo per “dare una lezione” a un concorrente. Di un altro che adesso parla con la procura perché tanto è bruciato vivo tutto il suo capannone. Non è più solo manodopera clandestina. Non è nemmeno solo sfruttamento. La mafia cinese di Prato, ci dice il nostro amico, è un sistema. Un sistema che ricorda quello della camorra, della ‘ndrangheta. E infatti, da qualche tempo, si scopre che le rotte si intrecciano. Che certi trasporti passano anche da Napoli, da Gioia Tauro. Che certi conti tornano solo se li leggi in mandarino.
E così, da una gruccia, da una cucitura, da un’etichetta cucita male, si può risalire a una guerra. Una guerra vera. Con feriti, con morti, con capitali che si muovono più rapidi della legge.
Ora che la procura ha un nome e un volto, Luca Tescaroli, qualcosa si muove. Ha parlato di mafia, finalmente. Ha chiesto una DDA per Prato. Ha invitato a parlare. E qualcuno ha iniziato. Cinquantadue, per ora. Non è molto, ma è l’inizio di una crepa. Dietro a tutto questo c’è un’economia grigia che a Prato vale decine di milioni di euro. Il distretto tessile, che negli anni Novanta era la punta avanzata del “Made in Italy” manifatturiero, oggi è dominato da imprese cinesi che lavorano in regime di concorrenza selvaggia. Secondo le stime dell’Ispettorato del lavoro, oltre il 70% delle aziende controllate ha commesso infrazioni sul lavoro e sicurezza. In parallelo, il sistema di logistica è gestito da circuiti paralleli, spesso legati alla criminalità: un ciclo chiuso, dove produzione, trasporto e distribuzione sono interni alla stessa galassia.
Le indagini giudiziarie più recenti, come l’operazione “China Truck”, hanno mostrato una struttura ramificata con connessioni internazionali, utilizzo di metodi di riciclaggio complessi (come il fei ch’ien) e legami documentati con la ‘ndrangheta per la gestione dei carichi. Il sistema non usa solo la violenza fisica, ma anche quella economica: imposizione di fornitori, minacce di esclusione dal circuito commerciale, distruzione della concorrenza.
La verità, dice il nostro amico, è che ormai nemmeno gli italiani riescono più a raccontare cosa succede. Troppo compromessi, troppo dipendenti, troppo dentro. Non è solo omertà, è adattamento. Un adattamento silenzioso e rassegnato, come quello di chi ha lasciato il volante ma continua a viaggiare sul furgone. E ogni tanto, quando qualcuno chiede com’è il viaggio, risponde: «Eh, vado dove mi portano». Poi ci racconta di un suo ex collega. Uno che aveva iniziato con lui, in un laboratorio artigianale con dieci dipendenti. Quando l’azienda venne venduta, lui restò. Oggi dirige uno stabilimento con oltre cinquanta operai, quasi tutti cinesi. Non parla la lingua, ma conosce le macchine, i tempi, i margini. È diventato il ponte: tra un passato italiano e un presente cinese. Lo chiamano “il maestro”. Ma la sera, quando esce, nessuno sa dove va. Dice solo: «Ho fatto tutto quello che potevo».
Queste storie si moltiplicano. C’è chi resiste in silenzio, chi si integra, chi si arrende. Ma in ogni racconto c’è una nota di spaesamento. Di irreversibilità. Perché Prato non è più solo Prato. È diventata un prototipo europeo: il primo vero laboratorio di coesistenza (e conflitto) tra capitalismo cinese e tessuto produttivo occidentale. E ora la questione non è più solo italiana. I capitali, le rotte e le organizzazioni si muovono in tutta Europa. Dalla Spagna alla Romania, da Budapest fino al Pireo. Le stesse logiche: velocità, invisibilità, marginalità. Ma anche le stesse falle istituzionali: norme deboli, controlli inadeguati, paura di “danneggiare l’immagine”. In questo senso, Prato non è solo un caso. È un segnale.
Il nostro amico resta nel suo mondo, tra macchine da cucire e caffè bevuti all’alba. Ma ogni tanto, dice, si guarda intorno e si chiede se è ancora a Prato, o in una provincia industriale del Guangdong. Poi riprende a lavorare. Come prima. Come sempre. Come se niente fosse, in fondo, cambiato.
Nota finale
Non siamo Saviano. Non abbiamo nessuna pretesa di raccontare segreti. Perché qui, a Prato, i segreti non esistono. Esistono le omissioni. Tante. Comode. Omissioni che si stratificano nel silenzio delle fabbriche, nella normalità apparente dei capannoni, nelle strette di mano a testa bassa. Lo raccontiamo perché ci è stato raccontato, e perché in fondo lo sanno tutti. Lo raccontiamo perché è l’ora di smettere di fingere di non vedere.
21 maggio

Prato, Santo Stefano (Duomo)