Abbiamo aspettato per anni.

L’anno dello scontro ed abbiamo pensato a cannoniere e bombardieri. L’epicentro Taiwan a poche decine di miglia marina dalla Cina di Pechino e della sue ambizioni imperiali. Quando attaccheranno e come? Ci sarà invasione? Gli Stati Uniti cosa faranno? E così mille altre domande.

Poi arriva il secondo Trump, più grosso, più arancione (abbiamo ricevuto un bonbon da New York che pubblicheremo presto), più arrabbiato di sempre ed abbiamo scoperto una mattina d’aprile che ha iniziato a bombardare lui.

Non bombe ma dazi, ma l’effetto è lo stesso e la guerra è iniziata. In attesa degli sviluppi del conflitto leggiamo i bollettini degli imperi ed osserviamo. Perdonerete l’attivismo editoriale di questi giorni, pari ad un quotidiano della sera, ma era quarant’anni che aspettavamo i tartari arrivare dal deserto ed ora sentiamo squillare le trombe e garrire le bandiere.

Premessa necessaria per dare ragione della lettura del tabloid in lingua inglese China Daily, già organo del partito comunista, la più commestibile – ai nostri palati – fonte e megafono della voce di marmo di Xi Jinping & the red friends.

I cinesi raccontano la guerra commerciale come una commedia tragica americana, tutta muscoli, slogan e autolesionismo. L’editoriale US bullyng erodes values that mades US world leader   descrive un’America infantile, isolata, preda del proprio stesso linguaggio. Trump, dice l’autore David Gosset, ha confuso la retorica con la strategia, e ha ridotto l’economia a uno strumento di ritorsione ideologica. Il risultato? Un impero che si frattura dall’interno, mentre l’Asia si riconfigura in silenzio.

A volte la Storia si vendica con grazia, come una vecchia amante. Fa aspettare nel gelo dell’anticamera, poi ti riceve con un sorriso sottile e una sentenza già scritta. Così — almeno nella narrazione ufficiale di Pechino — sta facendo la Cina con gli Stati Uniti, e lo fa con la pazienza di chi ha secoli nel sangue e sa che nessun destino è eterno, nemmeno quello delle superpotenze.

Ma sarà vero? O è solo la proiezione lucidissima di un desiderio?

Dall’altra parte, però, c’è un’altra narrazione. Quella che non si stampa, ma si bisbiglia nei caffè diplomatici di Singapore o tra le righe delle agenzie giapponesi: e se fosse tutto solo un bluff raffinato, una recita di potenza più che un reale declino? Gli Stati Uniti, dopo tutto, sanno anche aspettare, reinventarsi, colpire quando nessuno se l’aspetta.

La Cina, intanto, gioca con la sua partita simbolica. Accoglie delegazioni africane, inaugura ponti ferroviari invisibili al turismo ma visibilissimi al debito, propone un nuovo ordine che non è più liberale ma nemmeno pienamente autocratico. È un ordine-puzzle, in cui ogni tessera sembra incastrarsi solo se hai imparato la sua lingua.

Ma anche qui si annidano le domande. Il sistema cinese — così saldo, così millimetrico — reggerà davvero all’urto del tempo? Alla crisi demografica? All’insofferenza delle élite locali cresciute su TikTok e Harvard? Al desiderio, ancora non sopito, di respirare senza il filtro della sorveglianza?

Un altro editoriale dal titolo Ignorant, disrespectful rhetoric shows cause of difficult relations , racconta JD Vance, il vicepresidente statunitense uscito da un’America di rottami e bibbie  chiama “contadini” i cinesi in TV. Viene rimproverato dai giornali di Stato con una raffinata dose di paternalismo e umiliazione: non conosce la Cina, non ha letto Confucio, non sa che il contadino è anche eroe nazionale. Eppure, dietro il tono indignato, si intravede anche una soddisfazione sottile. Come se i cinesi stessero finalmente vivendo ciò che hanno sempre desiderato: essere fraintesi da chi li teme.

Ma forse è tutta illusione. Forse il vero mondo continua a muoversi nel mezzo. Tra un container che arriva in Pakistan e un brevetto scippato a Silicon Valley. Tra un algoritmo disegnato a Hangzhou e un attacco informatico mascherato da bug. Tra chi vuole scrivere le regole e chi, più umilmente, vuole solo sopravvivere a esse.

Il secolo asiatico non è ancora arrivato. L’America non è ancora crollata. E la Cina — sotto la superficie liscia del dragone — ha ancora molte cose da risolvere e capire. Ma certo è che oggi, a guardare il mondo da Bangkok, da Nairobi, da Quito, la scena è cambiata. Il protagonista non è più uno solo. E lo spettacolo — per chi sa leggere tra le righe — è appena cominciato.

Nel cuore di questa mutazione, rimane un dubbio che solo la letteratura (!!) può formulare senza ridurlo a formula: la forza è ancora una virtù, o solo un’ombra ben disegnata?

Mishima scrisse che “l’epoca moderna ha bandito la bellezza dal sacrificio, e così ha perso il significato stesso del morire”.
Forse anche le civiltà, come i samurai, invecchiano male quando dimenticano come cadere con grazia.
Gli Stati Uniti hanno dimenticato l’eleganza. La Cina, forse, la sta studiando. Ma non è detto che saprà praticarla, per esserne sinceri ne dubito.

Il mondo nuovo non sarà fatto di vincitori, ma di chi saprà trasformare il proprio trauma in stile.

12 aprile

 

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