Atto I – La mela che se ne andò

C’era una volta una mela.

Ma non una mela qualsiasi: era tonda e lucida, liscia come uno specchio, e piena di misteri. Dentro di lei si potevano trovare canzoni, fotografie, pensieri scritti al volo, e sogni registrati senza farsi notare.
Una mela che sapeva parlare, e che ascoltava tutto.

Era nata nel Paese dei Draghi, dove ogni giorno si svegliavano milioni di mani. Mani precise, pazienti, velocissime.
Quelle mani non raccoglievano mele dagli alberi. Le costruivano, una per una, con viti piccolissime, circuiti invisibili, vetro e memoria.

Ogni mela, quando era pronta, riceveva un soffio segreto:
un ricordo, una voce, una mappa, un numero.
Poi partiva.
In aereo, in nave, in camion. E volava verso il mondo.

Ma un giorno, una mela si fermò.
Guardò il cielo del Paese dei Draghi, che sembrava grigio anche quando c’era il sole, e pensò:

“Qui sono nata, è vero. Ma ogni giorno mi sento più stretta. Più sola. E se provassi a cambiare albero?”

Il Drago le rispose con un soffio di fumo:

— *”Non sei tu a decidere dove vai. Tu sei un prodotto, un oggetto. Qui si nasce, si lavora, si spedisce.”

Ma la mela, che aveva imparato ad ascoltare le storie degli altri, sapeva che dentro di lei c’era qualcosa di più.

Non solo elettronica.
Non solo vetro e chip.
C’era il pensiero di chi l’aveva costruita,
la stanchezza delle mani,
il sogno degli ingegneri,
la fame dei giovani operai,
la musica che qualcuno aveva messo in cuffia,
il saluto dimenticato di una madre a sua figlia.

Era un oggetto umano,
e come ogni creatura fatta dagli uomini,
cercava un posto dove rinascere.

Atto II – La mela che imparò a rinascere

In India, la mela fu accolta con curiosità.

Non era come un mango, né come una noce di cocco. Non profumava di spezie, non si sbucciava. Ma quando la toccarono, le nuove mani capirono subito che era una cosa importante.

I tecnici vennero da Bangalore, gli operai da Tamil Nadu, i capi da New Delhi.
Portarono viti, saldatori, ventilatori, e un po’ di pazienza.
C’era molto da imparare: ogni mela era un enigma, con più di duemila componenti, alcuni grandi come una formica.
Eppure, giorno dopo giorno, qualcosa cominciò a funzionare.

“Non siamo veloci come i Draghi,” dicevano i giovani tecnici, “ma forse possiamo essere più gentili.”

La mela non parlava, ma ascoltava tutto.

C’era una musica diversa qui: tamburi lontani, clacson impazziti, bambini che ridevano nei vicoli.
Eppure, anche in India, le fabbriche avevano muri alti e turni pesanti.
Anche qui si correva. Anche qui qualcuno piangeva la sera.
E la mela, registrando ogni cosa, capì che cambiare albero non significa smettere di portare frutti amari.

Ma lei non era più solo una mela.
Era diventata un diario segreto del mondo.
Ogni volta che veniva costruita di nuovo, imparava un po’ di più.

Della vita.
Degli uomini.
Del lavoro.

E un giorno, mentre veniva impacchettata in uno stabilimento alle porte di Chennai, sentì una voce dire:

“Hai visto? Questa viene da qui, ma finirà a New York, o a Berlino. E dentro avrà le mani di Anjali, la figlia di un contadino.”

La mela sorrise, come solo una macchina molto umana può fare.

Atto III – La mela che guardava il mondo

Ora la mela viaggia.

Non ha più radici.
Non appartiene a un solo paese, né a un solo popolo.
Nasce dove c’è bisogno, e parte quando il tempo lo chiede.

A volte finisce in una tasca a Tokyo,
a volte in una scuola di Nairobi,
a volte cade nel sonno di un aereo intercontinentale,
accanto a un viso stanco e una musica in cuffia.

Ogni tanto si guarda allo specchio:
la superficie liscia riflette volti, cieli, mani.
Ma lei sa che non è uno specchio qualunque.
È una traccia.

Dentro di lei ci sono gli occhi di Ling, che l’ha montata a Zhengzhou.
Le dita sporche di colla di Rakesh, che l’ha testata a Bangalore.
Il respiro spezzato di Alma, che l’ha aperta per la prima volta in una casa fredda di Malmö.
E forse anche un desiderio mai detto, sussurrato piano, una notte, da qualcuno che aveva bisogno di essere ascoltato.

La mela non cambia il mondo.
Ma lo racconta.

Senza parlare.
Senza mentire.
Con la pazienza delle cose fatte dagli uomini,
che sopravvivono ai sogni di chi le ha create.

9 maggio

Postilla. Dalla Cina all’India: la parabola industriale della mela

1. Come la mela arrivò in Cina

All’inizio degli anni 2000, Apple cercava un luogo dove realizzare il suo sogno: prodotti perfetti, velocemente costruiti, a basso costo. La Cina, con le sue ZES e l’efficienza di Foxconn, offrì la risposta.

La collaborazione Cina-Apple diventò il paradigma del capitalismo globale: l’Occidente creava desiderio, l’Oriente lo realizzava.

2. La frattura

Dopo il 2016, con Trump, la guerra dei dazi, il Covid e il rischio Taiwan, la fragilità del modello emerse.

Nel 2022, lo stabilimento Foxconn di Zhengzhou — “iPhone City” — divenne simbolo del rischio sistemico: proteste, lockdown, produzioni interrotte. Apple decise di diversificare.

3. Il passaggio in India

L’India offrì incentivi (PLI), manodopera giovane, stabilità politica. Foxconn, Pegatron, Wistron avviarono la produzione in Tamil Nadu e Karnataka.

Dal 7% degli iPhone prodotti in India nel 2022 si è passati al 14% nel 2024, con l’obiettivo del 25% entro il 2026.

4. Non è un ritorno, è una diaspora

Apple non rientra in patria, ma frammenta la produzione: India, Vietnam, Messico, e forse USA.

Le supply chain diventano geopolitiche: è la “deglobalizzazione selettiva”, una diaspora industriale per ridurre il rischio.

5. Il significato profondo

La mela, oggetto magico della fiaba, è anche manufatto umano, testimone silenzioso delle mani che la fabbricano, dei regimi che la spostano, dei sogni che la abitano.

Nella sua traiettoria da Shenzhen a Chennai, racconta un secolo intero di transizioni: tecnologiche, politiche ed umane.

 

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