L’articolo di The Economic Times, “Huawei might starve overseas before it sells”, di Pete Sweeney dello scorso 20 luglio, annuncia le difficoltà del colosso cinese ed un destino infausto prossimo venturo.

“Huawei potrebbe morire prima di vendere le sue attività offshore” così Sweeney, “I tentativi di Ren di eludere la rissa degli americani con Pechino sono falliti. Nonostante le proteste per il fatto che è di proprietà privata, i diplomatici cinesi hanno chiarito che gli interessi commerciali di Huawei sono inseparabili dall’agenda diplomatica del suo governo. Una grande fetta dell’attività di Huawei è all’estero: la società ha generato oltre il 40% dei suoi $ 123 miliardi di entrate al di fuori della Cina nel 2019. Ma con i suoi smartphone bloccati dall’app store di Google, i suoi dirigenti che non sono in grado di ottenere i visti degli Stati Uniti e la pressione americana, scindere le attività all’estero per preservare il valore appare sempre più attraente dal punto di vista finanziario.”

Non è semplicissimo approfondire la storia di Huawei, non esiste una biografia dell’azienda che la racconti in modo indipendente e la stessa stampa internazionale si mostra sorprendentemente omissiva, quasi opaca.

Le sole pubblicazioni rilevanti sono un paio di libri reperibili in lingua inglese, il primo è “The Huawei story” di Tian Tao del 2014, un cinese che poco spiega e molto racconta a noi occidentali del talento e della visione di Ren ed il secondo “Sinophobia: the Huawei story” di Eric C. Anderson, che inizia con la storia dei cinesi in America e del loro sfruttamento nella costruzione delle ferrovie del selvaggio west, alle pari difficoltà incontrate dalla società tecnologica a sbarcare negli Stati Uniti e di ottenere autorizzazioni e permessi di lavoro.

Insomma nulla di rilevante, anzi, semplici operazioni di marketing del marchio cinese, più interessante ricostruire la storia ed i legami tra Ren e l’esercito cinese.

Il fondatore della compagnia Ren Zhengfei, è figlio di contabile di una fabbrica di armi del Kuomintang (il movimento antagonista al partito comunista cinese) e poi Preside di scuola nel secondo dopoguerra, epurato durante gli anni della rivoluzione culturale (al pari del padre del presidente Xi Jinping) quando vive anni durissimi fino allo stesso pensiero del suicidio, suo figlio Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, si laurea in ingegneria civile e diviene il capo di un reparto di ricerca sulle telecomunicazioni militari in Sichuan.

Uscito dall’esercito fonda una società a Shenzen in un piccolo laboratorio, con l’intento di creare un’alternativa economica ai prodotti Cisco e Ericsson, era il 1987.

L’ascesa è rapidissima, i legami strettissimi con l’esercito cinese ed i loro servizi d’intelligence, maturati duranti gli anni, gli consentono di beneficiare di brevetti di altri, come i router della Cisco finiti nel sistema delle telecomunicazioni di Saddam Hussein a marchio cinese.

La mancata trasparenza sulle partecipazioni azionarie di Huawei è sempre stato “il problema”, già nel 2005 l’aeronautica militare statunitense scriveva dello stretto legame della multinazionale della tecnologia con l’esercito cinese, fungendo “sia da clienti di rilievo che da protettori politici e partner della società nel settore ricerca e sviluppo” (1) ed ancora “se una ditta protetta dall’esercito popolare di liberazione acquisisse un’azienda statunitense che fornisce dispositivi, software e servizi per le rete informatiche al governo USA, le possibilità del cyber spionaggio sarebbero praticamente illimitate” (2).

L’accelerazione della crisi tra l’amministrazione americana negli anni di Trump e la corporation cinese esplode nel 2018, quando il direttore FBI Chris Wray afferma:

“Siamo profondamente preoccupati dei rischi derivanti dal permettere a qualsiasi azienda, in debito con governi stranieri che non condividono i nostri valori, di guadagnare una posizione di potere nelle nostre reti di telecomunicazione. Ciò fornisce la capacità di esercitare pressioni o controllo sulla nostra infrastruttura di telecomunicazioni.”

Il resto è cronaca dell’ultimo anno, l’amministrazione Trump che sospende qualsiasi attività di Huawei sul suolo americano e impone a società come Microsoft, Google, Intel, Qualcomm di non intrattenere alcun tipo di rapporto commerciale con la corporation cinese.

Il Messico come via d’accesso ai prodotti cinesi della Huawei agli Stati Uniti, attraverso una triangolazione da narcos colombiani risulta una mossa disperata, che però non è certo sfuggita ai servizi americani, che hanno risposto con estrema durezza.

 

https://themazatlanpost.com/2020/07/22/huawei-will-bring-more-and-more-devices-to-mexico-and-not-just-smartphones/

 

https://www.dnb.com/business-directory/company-profiles.Huawei_Technologies_de_M%E9xico_SA_de_CV.d92fd7577086fa05b09aa22d4795a1f3.html

Possiamo ritornare da dove siamo partiti, ovvero dall’articolo di Sweeney che pone la questione della resa di Ren: “Lo stesso Ren lo scorso anno ha lanciato l’idea di vendere la proprietà intellettuale delle telecomunicazioni 5 G dell’azienda. Ma anche se Ren, un ex militare, volesse arrendersi, i suoi comandanti non glielo permetterebbero.”

Forse, è questa la mia conclusione, le autorità di Pechino sono state abili ad acquisire consensi nelle agenzie dell’Onu, ma la recente vittoria cinese a Ginevra sulle leggi liberticide di Hong Kong giudicate legittime, ci dice che i 53 paesi che hanno votato a favore della Cina rappresentano meno del 5% del prodotto lordo globale mondo, pari alla sola Germania che insieme ad altri 26 paesi moderni e sviluppati hanno votato contro.

Sovente ci si dimentica degli ordini di grandezza, ad esempio l’economia della Cina è solo 6 volte l’Italia quando per popolazione lo è 24 volte, i cinesi rimangono poveri a centinaia di milioni.

Huewei senza il mondo che conta non conta e l’amministrazione Trump lo ha capito bene.

 

1)Evan S. Medeiros, Roger Cliff, Keith Crane, James C. Mulvenon, A new direction for China’s defence Industry, Santa Monica, Ca, 2005, p.218

 

2) John J.Tkacik Jr., Trojan Dragon, China’s Cyber threat, comunicato riservato n.2106,    Heritage Foundation, Washington D.C. Febbraio 2008

 

24 luglio 20

 

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