“Il frutteto dei mango apparteneva alla mia famiglia da generazioni e nulla potrà essere più uguale, il taglio delle piante, l’eradicazione e l’espropriazione delle terre è una ferita terribile, insanabile”,

Usman mi parla con tristezza nel suo negozio di orafo nel centro di Milano, “i cinesi dovevano passare con la loro ferrovia, dal confine fino alla città di Gwadar al mare, hanno comprato il mio paese e le più alte cariche dello stato, la linea della ferrovia passa dove hanno deciso a Pechino o Shangai e non vi è nulla che è possibile fare a riguardo. Le autorità locali concedono rimborsi per gli espropri, ma la mia famiglia non avrebbe mai ceduto la nostra terra per nulla al mondo ed i nostri mango erano i migliori del paese e tutto il mondo conosce, che il mango del Pakistan sono la delizia più grande del creato”.

Usman vive a Milano da una ventina d’anni ed è un caso di perfetta integrazione, parla bene la lingua italiana, è uno stimato artigiano, paga le tasse ed ha visto nascere in Italia i suoi figli, una volta all’anno torna a casa ad abbracciare la famiglia.

“Gli alberi di mango non perdono mai le loro foglie lunghe ed affusolate, crescono nel tempo di una generazione e diventano alti anche venti metri, degli alberi di mio zio ricordo la grande chioma allargata ad ombrello. Nelle caldissime giornate estive, tra quegli alberi ho vissuto il tempo lieto della mia infanzia a giocare all’ombra dei quei mango con i miei cugini e poi bere il lassi freschissimo portato da mia zia (bevanda rinfrescante a base di yogurt). I frutti, grandi e gialli quando maturi, odorosi e dolcissimi, il nostro mango Shindri è la qualità più pregiata del Pakistan ed anche il simbolo, si dice che sia originario di Mirpur Khas, ma non ne sono certo.”

“Mio zio è morto l’anno scorso di crepacuore, gli operai cinesi quando sono arrivati, hanno tracciato la linea e nei giorni successivi hanno abbattuto tutto, poco conta che gli alberi erano pronti alla raccolta dell’estate, a loro non importava nulla. Quel giorno hanno battuto degli uomini che avevano chiesto di aspettare per raccogliere i frutti per un ultimo raccolto, la polizia pakistana ha fatto finta di nulla ed ha volto lo sguardo dall’altra parte, i cinesi hanno una loro forza d’ordine e polizia nei cantieri, come se fossimo in Cina e non in Pakistan”.

Se non fosse perché è una delicata questione di famiglia, mi ricorda quasi il film di Sergio Leone “C’era una volta il west”, la ferrovia che avanza per creare un mondo nuovo, in questa circostanza una strada ferrata per ridurre i tempi della navigazione delle navi nell’oceano indiano, Usman mi interrompe, “la ferrovia sarà cinese, per merci cinesi e non darà lavoro a noi pakistani, noi riceveremo briciole di roti (pane pakistano ndr), gli alberi sono stati espiantati non per la nostra patria e sarebbe stato doloroso lo stesso, ma perché le autorità hanno ceduto la nostra terra ai cinesi, la storia è tutta diversa.

Siamo una colonia, siamo tornati ad essere una colonia, credevamo che il problema fosse con l’India ed il suo leader Modi e ci troviamo i cinesi in casa. I cinesi hanno già rimodernato la vecchia ferrovia ed oggi per arrivare ad Islamabad a Karachi ci vogliono solo un giorno e non quattro, ma al prezzo della nostra libertà”. 

Spesso utilizzo il termine “cappio di seta” piuttosto che via della seta, l’espressione è di Usman ed è giusto che si sappia.

12 ottobre

 

 

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