“Taiwan non sarà invasa nel 2024 da Pechino e così per i prossimi tre anni, mi pare fortemente improbabile”. Il mio amico Paolo – non è il suo nome – è in Italia per rivedere la famiglia per le vacanze di Natale. Paolo vive in Cina da oltre venti anni ed è lettore della lingua italiana in una locale università, di più mi suggerisce di non dire. 

“La Cina non gode di buona salute. La crescita nel 2023 è inferiore del 5% ed è principalmente legata ai soliti investimenti pubblici. Un giovane su cinque è disoccupato ed altrettanti paiono indifferenti a credere nella carriera come fosse la vera religione di stato. Nota bene, aggiunge, i consumi alimentari hanno saldo negativo nell’anno e si comincia a parlare di deflazione, gli uffici studi la conteggiano a – 0,5% ed è un segnale preoccupante.”

Mi interrogo sulla società civile, la grande assente nel grande balzo cinese degli ultimi cinquant’anni.

“La gestione del Covid ha lasciato dubbi sulla leadership del partito e lo scambio quote di partecipazione e cittadinanza contro crescita e benessere non funziona più.” I risparmi di una generazione sono finiti negli ottanta milioni di appartamenti vuoti e nella bolla immobiliare si legge la disperazione di un popolo che ha lavorato sodo ed ha perduto ogni sicurezza”.

Il tema nazionale della riunificazione sarebbe un collante efficace, il discorso di fine anno di Xi Jinping lo ricorda a pochi giorni dalle elezioni presidenziali a Taipei, sarebbe dico, ma non ne sono così certo. 

“La deflazione muoverà i passi di Pechino”, mi dice Paolo, “il piano che promuoveva i consumi interni durante il Covid non ha funzionato, mancava un modello di sostegno alla domanda come si usa fare nelle nostre economie. Oggi i cinesi sono preoccupati e depressi. L’Occidente importa meno, mentre la Cina incrementa i volumi export con Russia, oltre il 600%, e così il sud del mondo.”

Non basta, mi pare evidente. “Certamente. Le linee della produzione del valore corrono ancora tra Occidente e Cina, ma la fiducia reciproca è ai minimi termini come ai tempi di Tienanmen. Pechino non è quella di vent’anni fa ed in tanti hanno fatto le valigie, tanto da far sorridere la nuova politica dei visti per agevolare i viaggi di turismo e d’affari. Chi doveva venire è già venuto e se ne è pure andato, basta osservare l’andamento della borsa cinese negli ultimi tre anni che ha avuto una performance negativa. Però la Cina è parte della supply chain globale, non è la Russia che vendeva oil & gas e poteva essere sostituita – al costo di un paio d’anni d’inflazione – ed invadere l’Ucraina. Mosca ha poco da perdere e meno da dare e perdersi nei pensieri sulla Russkiy Mir o il destino dell’anima russa. La Cina non può permettersi un Aleksander Dugin ed invadere Taiwan perché le conseguenze economiche sarebbero tragiche per loro, per noi e per tutti”.

Mi auguro tu abbia ragione. “I magazzini dei cinesi sono già colmi di merce invenduta, con una guerra a Taipei non basteranno dieci anni a smaltirli e la loro industria si arresterebbe per una generazione o forse due.”  Forse dovremmo essere preoccupati di un’invasione di prodotti a prezzi scontati e dumping, è la loro strategia da cinquant’anni e non hanno molto altro da offrire“.

Paolo ha ragione. Non solo cartine colorate e tante freccine sulle aree d’influenza, pensando a missili e cannoni, aeroplani e portaerei, la politica delle nazioni è interdipendenza economica che semplifica e complica ogni responsabilità nell’anno cinese del dragone. 

6 gennaio

 

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