La rapidità di un’ascesa industriale e di un crollo possono essere rapidissimi negli anni venti del terzo millennio.
Nei primi giorni di luglio Keith Bradsher, nell’articolo “China dominates medical supplies, in this outbreak and the next” sulle pagine del New York Times, riportava l’ascesa dell’industria manifatturiera cinese nel settore delle attrezzature medicali e protezioni individuali. Secondo Bradsher, le imprese private avevano avuto negli ultimi anni finanziamenti a fondo perso del governo centrale per il potenziamento dell’offerta di attrezzature per le terapie intensive, ma anche mascherine.
La crisi Covid ha trovato impreparati i paesi occidentali, che non avevano investito in un settore la cui domanda non è certa per volumi e continuità, e dove i macchinari per la produzione di mascherine di protezione sono di produzione cinese, più specificatamente di aziende legate all’esercito cinese, come la Sinopec, una società petrolifera capace di riconvertirsi in produttore di respiratori e macchine per le protezioni individuali.
Le stesse forniture di mascherine, sono state dai primi giorni giorni della pandemia lo strumento del preteso soft power cinese, quando il presidente Xi affermava “brother and friend” all’Italia, che per prima era stata colpita dal virus di Wuhan.
La propaganda di Pechino aveva avuto buoni risultati nella prima fase della pandemia, in modo particolare nell’opinione pubblica e dall’iniziativa politica del maggior partito di governo sodale ed organico al partito comunista cinese i cinque stelle, successivamente l’onda rossa si è spenta, anche a seguito delle evidenti responsabilità del governo cinesi nella gestione della crisi sanitaria.
In Cina la crescita incontrollata dell’offerta di mascherine, con la creazione di 76.000 nuove fabbriche ha creato un problema di sovrapproduzione, ad esempio, il migliore modello di protezione N95 prodotto in Cina nel numero di 130.000 pezzi giornalieri a febbraio, ha raggiunto di quasi sei milioni di pezzi al dì a fine aprile.
Oggi le fabbriche chiudono, come riporta il China Labour Bulletin (Clb) di Hong Kong, per effetto dell’enorme sovrapproduzione e della bassa qualità delle mascherine e gli operai si ritrovano a perdere un lavoro mal pagato come riporta Asianews: “I salari nelle due fabbriche erano piuttosto bassi. Gli operai dovevano produrre 3mila maschere N95 ciascuno ogni mese per ricevere uno stipendio base di 2.800 yuan (353 euro). La commissione per il turno di giorno era di circa 0,02 yuan per pezzo; 0,03 yuan per quello di notte. I lavoratori che producevano maschere monouso non avevano nemmeno uno stipendio base ed erano pagati a forfait.”
In questi stessi giorni la disoccupazione in Cina è salita al 13,8% e crescente appare l’insoddisfazione dei lavoratori per le condizioni economiche nel settore privato, non è più tempo di cantare “bandiera rossa”.

 

9 settembre 20

 

 

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