Nel 1987, Donald J. Trump pubblica “The Art of the Deal“. Il libro è un curioso oggetto culturale: ibrido, aggressivo, spettacolare, irregolare. Non è soltanto un’autobiografia, non è soltanto un manuale, ma la guida di un’@merica che crede nel contratto più che nella comunità, nella transazione più che nella tradizione, nella forza più che nella forma.

Letto oggi, con gli occhi di chi ha attraversato gli anni Trump, non parla più soltanto di immobili, licenze edilizie e trucchi negoziali, parla del mondo e del modo in cui l’@merica ha iniziato a pensarsi non più come patria di valori, ma come piattaforma di interessi. Non come progetto collettivo, ma come brand globale.
Un mondo dove la diplomazia diventa trattativa, l’alleanza diventa clausola, l’identità diventa leva. Trump, con la sua brutalità lineare, non ha inventato nulla. Ha solo spinto all’estremo ciò che già c’era, lo abbiamo scritto pochi giorni fa, ha tradotto in gesto politico una logica profonda: la convinzione che tutto si possa negoziare. “The Art of the Deal” è la premessa teorica e la genesi narrativa.

Nel libro, si intravedono dieci principi essenziali: pensare in grande, sfruttare ogni leva, non temere il ritiro, creare concorrenza, dominare la narrazione.
Principi d’apparenza neutra, ma in realtà potentemente a-morali. Questi assiomi hanno permeato non solo la politica estera americana durante l’era Trump (gli accordi di Doha con i talebani ad esempio), ma anche il suo riflesso culturale: la solitudine strategica, il culto della vittoria, la svalutazione dell’alleanza come forma e sostanza. Ogni decisione, dal ritiro dal trattato di Parigi, all’imposizione di dazi contro la Cina, dalla pressione sugli alleati NATO, la teatralità dell’incontro con Kim della Corea del Nord al trentottesimo parallelo, le dichiarazioni di stima a Putin perseguito dalla Corte Penale Internazionale per il rapimento di minori, è stata il riflesso coerente di questa grammatica sgangherata.

Eppure, è proprio nell’applicazione globale di queste regole che si manifesta la vertigine e limite. Perché il mondo non vale un insieme di possibilità da massimizzare, perchè è piuttosto composto di identità e le identità non si negoziano. Questo è il punto decisivo. Il deal, per sua natura, è strumentale e nasce per risolversi hic et nunc, fondandosi sull’equivalenza ed il numero. Il patto invece è simbolico, implica fedeltà e costruisce appartenenza. Uno primo sostanzia il vantaggio, il secondo si fonda sulla promessa.

Pensiamo all’articolo 5 del Trattato Atlantico, il vincolo sacro e primigenio. L’impegno secondo cui un attacco a uno è un attacco a tutti. In settantacinque anni, è stato invocato una sola volta e dagli Stati Uniti. Non durante la Guerra Fredda, non in Bosnia, non in Afghanistan, non in Ucraina ma dopo l’attacco al World Trade Center (bizzarra analogia dei tempi!) ed al Pentagono.
La retorica del patto parla  a quando si ha bisogno, la logica del contratto pretende quando si è in vantaggio. Ecco il deal: ti proteggo, ma solo se mi conviene. Ecco cosa resta del “noi” quando viene valutato a consuntivo. La verità è che l’articolo 5 non è un elemento giuridico quanto un atto di fede, promessa senza scadenza. Ma in tempi di contabilità strategica (!), anche la fede diventa appendice. Perfino l’alleanza più duratura del mondo si ritrova a giustificare la propria esistenza col calcolo di costi e benefici.

Trump ha portato l’@merica a trattare con se stessa come se fosse un’azienda: tagliando e  scorporando, assurgendo Elon Musk a suo sardanapalo, altro che doge, per annichilire l’amministrazione federale e collocando Washington nella pampa accattona ed argentina di Milei.

Nella politica internazionale, questa logica ha conseguenze gravi. La Cina, che costruisce egemonia attraverso narrazione e tempo lungo, resiste alla logica del guadagno immediato. La Russia, per quanto cinica e crudele, agisce a partire da un sentimento di riscatto identitario. L’Europa, per quanto fragile, continua a credere in una forma post-storica del patto, anche se spesso non sa nominarlo, si vedano le dichiarazioni di queste ore della Von der Leyen.

Il deal è utile quando si compra un grattacielo e si sceglie il miglior sordido avvocato di New York per uscire indenni dai troppi fallimenti. Diventa pericoloso quando si applica a ciò che unisce o divide popoli, memorie, civiltà. In questa visione contrattualistica del mondo, tutto tende a diventare reversibile, condizionato, misurabile e miserabile. L’esito è disastroso perchè si annulla la parola data ed il senso di appartenenza ed ogni alleanza tende a scomparire.

Ecco perché “The Art of the Deal” oggi ci interessa molto. Non perché sia una guida utile. Ma perché è una confessione culturale. Un testo che ha trasformato la logica negoziale in un’etica implicita. Una religione del profitto, travestita da manuale. Una rinuncia al patto, in nome dell’efficienza e la prospettiva orba che ti porta a governare la nave verso gli scogli della storia.

La domanda, oggi, non è chi negozia meglio.
La domanda è: chi sa ancora custodire ciò che non si negozia?
Chi ha il coraggio di dire “noi” senza trattarlo come un vantaggio?
Chi è disposto a vivere nella fedeltà, non nel margine?
Chi sa distinguere tra ciò che si firma, e ciò che si giura?

Il mondo non ha bisogno di nuovi deal.
Ha bisogno di qualcosa che il deal non può e deve contenere: il significato ed il senso della storia.

Postilla

C’è una differenza sottile tra il contratto e il patto.
Il primo vincola. Il secondo unisce.
Il primo teme il conflitto, il secondo lo attraversa.
Il contratto appartiene al mondo degli interessi.
Il patto — come la parola, come il mito — al mondo del significato.

L’errore non è stato pensare che tutto fosse negoziabile.
Ma credere che valesse la pena vivere in un mondo dove nulla fosse più non negoziabile.

Post scriptum – tracce di una grammatica del Deal

1) Pensare in grande, come se la misura fosse già un limite.
2) Difendere il margine, perché ogni concessione è una sconfitta.
3) Trovare leve in ogni dettaglio, come se il mondo fosse una macchina da manipolare.
4) Leggere il mercato meglio degli altri, per agire prima che gli altri capiscano.
5) Fare di ogni risultato una vittoria, anche quando non lo è.
6) Rendere l’imprevedibilità una strategia, mai una distrazione.
7) Alimentare la concorrenza, anche fra gli amici.
8) Saper dire no, e farlo senza esitazione.
9) Controllare il racconto, più dei fatti che lo compongono.
10) Non scendere mai dal palcoscenico, perché il potere è anche presenza.

4 aprile

Il libro è in vendita sulle piattaforme commerciali o usato sul sito d’acquisto Ebay

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