Nella giornata di domenica il Myanmar è andato alle urne per votare il prossimo parlamento.

La prima elezione quasi democratica si era effettuata nel 2015 ed aveva visto la vittoria della settantenne Aung San Suu Kyi, che aveva ottenuto una vittoria schiacciante con oltre il 57% dei voti, che grazie ad un sistema maggioritario uninominale, gli aveva consentito di raggiungere ben 255 seggi su un totale di 440.

Il sistema elettorale politico del paese è però condizionato dalla prerogativa che i militari, che avevavo accettato di aprirsi alla volontà popolare garandendosi il 25% dei seggi nelle due camere, inoltre sono costituzionalmente a loro appannaggio i ministeri chiave, difesa, interno e confini. 

I primi cinque anni della Aung San Suu Kyi sono stati straordinari ed anche deludenti, l’ebrezza della democrazia e la crescita economica stabilizzata oltre il 5% annuo e le ombre sulla gestione della crisi della minoranza Rohingya della regione del Rakhine e l’accusa di genocidio.

I Rohingya sono di religione islamica provenienti dal sub continente indiano e dal Bangladesh e vivono in Birmania da secoli. Il Myanmar, paese di confine tra il sub continente indiano e quello indocinese, non riconosce questo gruppo etnico di quasi un milione di persone come titolare di diritti civili e li esclude dalla vita politica e civile, negli ultimi anni la loro persecuzione li ha costretti alla fuga spesso inseguiti dall’esercito birmano, che ha utilizzato anche i mortai contro donne e bambini ammassati ai valichi di confine con il Bangladesh.

Aung San Suu Kyi nel suo ruolo di consigliere di stato della Birmania, l’equivalente della carica di primo ministro, è sembrata poco interessata alla vicenda dei Rohingya, accettando senza alzare la voce la repressione dei militari accreditando l’ipotesi, che la comunità Rohingya fosse eterodiretta dal terrorismo islamico.

In una Rangoon provata dalla pandemia del coronavirus più di ogni altro paese dell’area, alle prese con una crisi economica che riporta i figli dei contadini dalle città alle campagne dei padri, la popolarità della storica leader non è messa in discussione in patria, ma non fuori dal paese. Allieva di Ghandi e del pacifismo, già vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991, Aung San Suu Kyi ha deluso il mondo ed il processo in corso presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja contro il governo birmano stabilirà le precise responsabilità dei crimini.

Non è facile scendere a patti con il male.   

10 novembre

 

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