Un luogo tanto diverso da essere un altrove dalla propria anima, carne e scrittura, e per questo utile a svelare nel viaggio il proprio destino.

Nikos Kazantzakis che scrive una personale e coltissima Odissea per rifondare il mito ed l’idioma greco, libro da salvare nell’arca degli ultimi giorni, ma anche di un viaggio in Cina ed in Oriente a lungo desiderato, un tempo unico dedicato alla scoperta del sé specchiandosi nell’altro. Curiosità e sorpresa, spavento ed ammirazione, incontro e un’umanità incomprensibile, le parole con mercanti e contadini, maestri spirituali e principi, mandarini, notabili e servi. Il mondo divenuto caos nella vastità di un “formicaio giallo”, che esplode tra mille suoni tra lingue sconosciute in un paese immenso e senza confini. Stordimento di sensi, tutti i sensi quale alfabeto della grammatica del viaggio. Nikos Kazantzakis lo scrive chiaramente:

“Non vengo per capire, vengo per saziare i miei cinque sensi … I greci antichi – cioè i miei antenati, per dirla con l’arroganza del greco moderno – affermavano che l’anima è la palestra di tutti i sensi. Io sono un’anima di questo tipo. Un animale effimero, con cinque tentacoli, che accarezza il mondo.”

Kazantkakis arriva in estremo oriente nel 1935, ha più di cinquant’anni, vive il momento nella piena maturità. Il maggior scrittore ellenico del novecento pare affrontare l’inconscio al tempo di Freud con lo strumento dell’indagine etnografica, celata dalle migliori pagine della letteratura da viaggio, un frammento è la descrizione dell’umano femminile:

“Centotrentacinque ideogrammi cinesi contengono la radice della parla “donna”. Di questi, solo quattordici esprimono significati relativamente positivi, trentacinque i termini più turpi e ignobili e gli altri ottantasei non hanno una particolare connotazione. La radice “donna” combinata alla radice “scudo” significa furfante, volgare, traditore, e se tale combinazione viene replicata per tre volte, rinvia ai concetti di adulterio, intrigo, sfrontatezza”.

Poi la descrizione che spiega ogni cosa:

“In questa immensa distesa, formicolano oltre cinquecento milioni di corpi: portatori, mandarini, commercianti, pescatori, contadini. Alcuni con le treccine, altri con la testa rasata. Quelli del nord, alti robusti, con il selvaggio sangue mongolico nelle vene, quelli del sud, malaticci dalle ossa sottili, sfacciati e svelti come scimmie”.

Chi mai potrebbe mai dire qualcosa del genere nel 2023 senza essere sottoposto ad un processo dell’inquisizione morale del tutti uguali. Ma Kazantkakis è uomo libero in un tempo libero, può dire ciò che vuole perché lo vide, ieri meglio di oggi e mai:

“Barbarie e raffinata decadenza, ottusità senile e rudezza primitiva, ateismo e complesse misteriose filosofie religiose, apatia stoica e all’improvviso follia sfrenata, fetore insopportabile e accanto rose e gelsomini”  

Così Pechino descritta come “la città più bella che ho visto al mondo”, le acacie in fiore nel crepuscolo della primavera fino al levarsi “del greve odore della Cina, acidulo e variegato, che sa di urina calda, olio di resina rancido e acre sudore umano”.

Leggiamo Kazantkakis e ricordiamo Moravia, tanto diversi e tanto simili, il primo in Cina ed il secondo con Morante e Pasolini – che stordimento e delizia – a spasso per l’India. La Cina ed il suo mistero, incomprensibile a noi occidentali perché “i cinesi sono duri e vendicativi, avidi e sporchi”, ma hanno radici che si spingono nella viva terra per nutrirsi di fango e sporcizia, fino all’essere capaci di far sbocciare in quel pantano immorale un fiore. Pare di leggere Shakespeare, ma è Kazantkakis che scrive, per ricordarci che il saggio Zhuang Zhou, che da noi non avrebbe nessuna fortuna se non in gruppo di quattro fricchettoni, suggerisce di “spogliarsi della propria pelle come un serpente e sputare il cervello per unirsi all’infinito”. Qui il mistero giallo ed il nostro, si svela nel pensiero di un luogo dove gli abitanti si “aggrappano alle cose per mangiarle, berle e farle proprie”, come il bruco della seta, che striscia ed è tutto ventre e bocca, mangia, sporca, mangia di nuovo – un lurido tubicino con due buchi. Ma tutto d’un tratto tutto il cibo diventa seta, il misero vermetto si avvolge nei ricchi pepli della sua fantasia, e con il tempo spuntano due bianche ali vellutate.”

Più di tante chiacchiere e bagatelle di qualche analista politico, si legga Kazantzakis, quanto racconta del qi, la furia negativa del cinese. “Il meccanismo del cuore oscuro e complesso”, che accumula “umiliazione amarezze. Non parla. Non fa il minimo gesto che tradisca i suoi sentimenti. Lo guardi e pensi: “Non ha capito”. Lui invece vede tutto, ascolta tutto e registra a memoria ciò che gli devi. E un giorno sicuramente ti presenterà il conto”. Lo scriveva Kazantzakis nel 1935 e penso a Taiwan, “ho sempre guardato il formicaio giallo con un senso di inquietudine … verrà il giorno in cui la paglia prenderà fuoco ed incendierà il mondo …”, come già avvenne il 20 maggio 1920 quando esplose d’un tratto il qi, ” Ammazzate i barbari bianchi! Gettateli in mare! La Cina alla Cina”.

L’ottima Crocetti ne ha pubblicato la prima edizione italiana nel giugno di quest’anno al costo di soli 18 euro ben spesi.

9 giugno

 

 

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