“ … all’alba del XXI secolo, gli Stati Uniti potevano legittimamente rivendicare che l’ordine internazionale che avevano forgiato e i principi che avevano promosso – la pax americana – avesse contribuito a modellare un mondo in cui miliardi di persone conducevano l’esistenza più libera, più sicura e più prospera che in passato”. (Pagina 385)

Così Barack Obama nella sua autobiografia, “Una terra promessa”, edita in Italia per Garzanti per il Natale 2020 ed in vendita per 28 euro.

Lettura agile e scorrevole, facile come i nostri tempi vasti e pochi profondi.

Poche notizie sugli anni della formazione e sul rapporto con la madre, l’amore con Michelle fondato sul senso di responsabilità e partecipazione alla malattia dei reciproci genitori, molto sulle questioni di palazzo a Capitol Hill, abbastanza sulla geopolitica troppo poco sull’Asia il tema del nostro foglio in silicio.

Obama è certo dell’immutabilità dell’ordine mondiale e dell’egemonia americana e minimizza la forza predatoria del capitalismo di stato di Pechino, del mancato rispetto delle regole, del dumping sociale e commerciale.

Obama ha della Cina una profonda ammirazione per la crescita impetuosa, anche se minata da iniquità e scorrettezza di ogni genere, “consideravo il fatto che la Cina fosse riuscita a sollevare centinaia di milioni di persone da una situazione di estrema povertà un successo straordinario nella storia dell’umanità” (Pagina 549), e riesce addirittura a sorridere dei sistemi di spionaggio cinesi, che ne osservano le mosse durante una campagna elettorale, “cosa che avevo interpretato come un segno positivo in merito alle mie possibilità di vittoria”. (Pagina 546)

Obama rinnega il “diviser pour régner”, costitutivo delle tradizionali relazioni estere, per affermare che una Cina più povera “rappresentasse una minaccia più seria per gli Stati Uniti rispetto ad una Cina ricca” (Pagina 549). Ribadisce la propria fedeltà al mantra del libero mercato e della globalizzazione, ed afferma che non ritiene necessario mettere in discussione o correggere, così la delocalizzazione, “troppi soldi in ballo” (Pagina 548) per le grandi aziende, gli azionisti e Wall Street. Rimane l’idea di poter forzare il proprio tempo per un vantaggio immediato e non voler credere alla profezia di Deng Xiaoping, “nascondere la propria forza e aspettare il proprio momento”, piuttosto trattare la Cina in modo “non troppo inflessibile ma nemmeno di esserlo troppo poco” per non spaventare i mercati e gli investitori. (Pagina 549) La convinzione delle buone ragioni delle imprese multinazionali – i primi finanziatori del partito democratico aggiungiamo – e ritenere che le posizioni protezionistiche fossero di pochi estremisti di destra e di qualche sindacalista di sinistra.

L’idea che “per fare progressi nelle questioni più spinose di politica estera mi serviva anche una diplomazia diversa e più pragmatica …”, attenta alle ragioni della finanza “La Cina possedeva più di 700 mld di dollari del debito americano” (l’altra faccia del disequilibrio commerciale direbbe Krugman), molto meno alla disoccupazione “le pratiche cinesi – insieme alla delocalizzazione – avevano accelerato il processo”, ricordandosi solo alla fine che i lavoratori americani ne avevano risentito e bisognava fare qualcosa anche per loro, penso ad un progetto di salute pubblica per gli ultimi ed una riduzione delle tasse per le classi medie. (Pagina 549)

Non si legge travaglio interiore nell’America di Obama, che tradisce la propria base elettorale a favore delle opportunità mercantili delle grandi aziende, lasciando soli i propri figli, che poi sceglieranno Trump al successivo giro di giostra.

Le pagine di Obama sono state pubblicate nell’agosto del 2020 a traino delle elezioni presidenziali, cinque anni fa era presidente degli Usa ma sembra passato un secolo dal Buy American di Biden, che ha fatto copia ed incolla del Make American Great Again di Trump. 

Si legge in Obama i prodromi di un Occidente in bancarotta morale, che confonde la realpolitik degli anni della minaccia nucleare sovietica ai trenta denari dei mercanti del tempio di Shangai, come se il risparmio nell’acquisto a buon mercato di uno schermo piatto giustificasse la dismissione industriale dell’Occidente.

E’ la presidenza di Obama che ci condurrà all’America di questi anni, da Trump – l’opposto continuum – ai chiassosi occupanti di Capitoll Hill, fino a chi trova liberatorio distruggere le statue dei propri padri, perché l’integrità dei fondatori è inciampo all’indecenza dei tempi dove si confonde la sostanza e l’accidente, la verità e la menzogna.

Obama ha accelerato il declino nell’impudenza di non celare il proprio difetto fino a definendolo virtù, “Cominciai a chiedermi se avessimo trasformato una virtù in un vizio; se, troppo concentrato sui miei nobili ideali, non fossi riuscito a raccontare al popolo americano una storia in cui credere …” (Pagina 604)

Nell’autobiografia troviamo al centro della politica estera l’immutabile medio Oriente, con i suoi problemi irrisolti in prossimità degli ultimi decenni di transazione energetica. Le vicende irachene ed afgane e gli inciampi libici, senza aver intuito dove fosse la vera minaccia celata da opportunità.

Obama, l’icona pop del nostro millennio, nero ma purissimo wasp per due quarti con studi ad Harvard (come Bush figlio ndr), è anche capace di sorprenderci quando ricorda un aneddoto dove mostra inusitata sicumera.

Obama alla conferenza sul clima di Copenhagen del 2009 irruppe non invitato in una sala conferenze dove stavano discutendo i rappresentanti di Cina, Brasile, India e Sudafrica “… mi rivolsi a Hillary. Quando è stata l’ultima volta che ti sei imbucata ad una festa?”. Obama forzò la diffidenza circa la riduzione delle emissioni, minacciando una compagna di comunicazione globale contro questi paesi “e allora vedremo a chi crederanno” (Pagina 592), poi non manca di schernire la controparte, il ministro dell’ambiente cinese “un tipo tarchiato, occhialuto e con la faccia tonda, balzò in piedi e si mise a parlare in mandarino … trattenendo una risata, mi rivolsi alla giovane donna cinese che traduceva”, fino al dialogo con lo staff sull’aereo che lo riportava a casa, “Devo proprio dirglielo capo, si è comportato davvero come un gangster. Ero proprio soddisfatto.” (Pagina 593)

Fosse vero non sarebbe da raccontare ma da vergognarsi, lo fosse in parte ne emerge una leggerezza da bullo del Bronx, in un caso o nell’altro una sciocchezza da chi ha visto troppi film di Scorsese. 

Certo, il tomo di 800 pagine è stato scritto per neo pensionati del mid west, affondati in una sdraio fronte piscina in un residence di Pensacola, Florida, ma ci saremmo attesi qualcosa di meglio.

“Una terra promessa” non è il libro da comprare perché vi annoiereste a morte, passiamo ad altro.

15 aprile

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