Poche riflessioni sul tema di questi giorni, nel merito la cooperante Silvia R..

Mi limiterò al necessario, tra un registro colto ed uno pop, per evidenziare che la stessa discussione è un accidente senza senso.

Il tema dell’angoscia e della morte è centrale nel pensiero occidentale, si pensi a Pascal: “più facile accettare la morte senza pensarci che pensare alla morte” ed Heidegger dove la morte è come un pensiero impersonale perché non tollerabile, ovvero il “si muore” e non “muoio”, fino al suo stravolgimento e negazione in Freud : “Insistiamo in genere sulla causa accidentale della morte: incidente, malattia, infezione, tarda età rivelando così una tendenza ad abbassare la morte da fatto necessario a fatto casuale”.

Che la signora Silvia R. abbia provato angoscia è nell’esperienza della perdita della libertà, considero inadeguato discutere della sindrome di Stoccolma, meglio utilizzare gli strumenti della teoria dei giochi del pensiero analitico del 900.

Il dilemma del prigioniero di Albert Tucker propone una situazione limite, in cui una persona deve decidere se collaborare o meno con un potere coercitivo superiore. Nella formulazione il gioco è un poco più complesso ed è a disposizione di chi è interessato in rete, ma i termini potrebbero essere simili a quello del caso in questione. Sosteniamo un danno minore in caso di collaborazione con il secondino? Come nel caso assunto da Tucker, la scelta della collaborazione è la scelta migliore per la minore esposizione al rischio percepito al prezzo di un costo emozionale certo. Tutto questo è suffragato dalla psico biologia di Henri Laborit, dove si enuncia il principio del primato della sopravvivenza a prescindere. Ça va sans dire che l’etimo della parola Islam è “sottomissione”.

Alla domanda se la signora ha agito nella pienezza del libero arbitrio, possiamo quindi rispondere che ha avuto una risposta funzionale all’accidente e se qualcuno dovesse ancora insistere chiedendo come mai non abbia svestito la “palandrana verde” una volta tornata a Milano, si potrebbe raccontare la storia di Pu Yi a cui Bernardo Bertolucci ha dedicato il film “L’ultimo imperatore”, premiato con ben nove Oscar. Pu Yi divenuto imperatore giovanissimo, fu travolto dalla storia della Cina del novecento, fino ad essere rieducato dai comunisti durante una prigionia lunga nove anni. Morì da buon comunista con buona pace del finale poetico scritto da Bertolucci.

Di Pu Yi ho letto l’autobiografia che per una volta non vale un film immenso, anticipo pure che non acquisterò il libro della signora di prossima uscita.

14 maggio 20

 

 

 

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