Ho conosciuto Zhang Z. anni fa, durante una breve vacanza a Hua Hin.
Alloggiavamo entrambi all’Anantara, un gioiello disegnato da quel genio di Bill Bensley — probabilmente il più talentuoso tra i designer di architettura per alberghi in Asia. Ogni dettaglio, dalle lanterne sospese ai padiglioni affacciati sull’acqua, sembrava concepito per favorire una sospensione del tempo.

Zhang era lì con la moglie e il figlio piccolo. Io ci ero finito per caso con moglie e figlie. Ci trovammo a condividere qualche cena e alcune chiacchiere lunghe in terrazza. Mi colpì subito per la sua calma matematica: lavorava a Shanghai, si occupava di fondi pensione, aveva studiato in Europa e parlava un inglese preciso, neutro, quasi senza inflessioni. Parlammo di finanza, di Cina, dell’Occidente che secondo lui “si racconta storie troppo lunghe per una vita così breve”.

Da allora ci siamo risentiti ogni tanto. Un caffè a Milano, quando venne per un incontro istituzionale, alcuni scambi criptici su WeChat. Non direi che siamo amici nel senso pieno — ma ci siamo riconosciuti, questo sì. Abbastanza da sapere come parlare. E da sapere quando farlo.

Quando Moody’s ha annunciato il declassamento del debito americano, gli ho scritto e poi ci siamo sentiti al telefono, mi ha raccontato la sua versione. Gli ho detto che stavo pensando di raccontare questa storia anche attraverso di lui. Gli ho chiesto il permesso, con quella cautela che si usa tra persone che si rispettano. Mi ha chiesto di restare anonomo, di lasciare il proprio cognome puntato. Lo facciamo da sempre, lo abbiamo appreso da Kafka, gli amici e le fonti si lasciano lontano dai guai.

Poi gli ho mandato la prima bozza. Era un racconto verosimile: una parte vera, una parte interpretata. Lui si è divertito moltissimo, ma l’ha anche presa molto sul serio. Mi ha fatto un paio di correzioni. “Mi hai fatto più curioso di quanto sia”, mi ha risposto. E poi: “Avanti così. La verità ha bisogno anche di piccoli travestimenti per farsi ascoltare.”

E così, eccoci qui. La storia inizia da lui.

Moody’s era l’ultima delle grandi tre a mantenere la tripla A americana.
Il declassamento non è bancarotta, ma rottura simbolica.

Il debito USA ha superato i 36 trilioni di dollari.
Il deficit annuo resta oltre i 1.500 miliardi.
Gli interessi sul debito assorbiranno presto più del budget per la Difesa.

Il voto Aa1 è ancora alto, ma infrange una narrazione: quella dell’infallibilità americana.
Il downgrade non punisce il passato.
Anticipa un futuro non più scontato.

La Cina ha ridotto gradualmente la propria esposizione ai titoli americani: da 1.300 miliardi nel 2011 a meno di 800 nel 2025.

Ma resta un attore chiave. E un osservatore inquieto. Troppa liquidità, troppa inerzia, troppi legami invisibili.

Ma il downgrade è ora un argomento politico. Più oro. Più ASEAN. Più asset interni. Meno America.

Il suo messaggio criptico a un collega di Shenzhen – “The eagle just blinked” – è il segnale.

È cominciata una fase nuova.

A Jakarta, Buenos Aires, Lagos, gli operatori leggono la stessa notizia. Il downgrade può spingere i rendimenti USA in alto.
E quindi risucchiare capitali dai mercati emergenti. Una fuga verso il rifugio… anche se incrinato.

È il paradosso del centro: vacilla, ma resta imprescindibile. Le periferie ne pagano il prezzo.

La seconda presidenza Trump ha accelerato tutto: tagli fiscali, spesa pubblica, deficit come linguaggio politico.
Il Congresso è paralizzato. La stampa di dollari è diventata una dottrina. E il concetto stesso di “affidabilità” si è trasformato in slogan elettorale.

Il downgrade di Moody’s è la risposta sobria del mondo a una retorica urlata.
Una sveglia sussurrata mentre la festa continua.

Zhang osserva in silenzio i numeri parlano.

Nota dell’autore

Questo testo nasce da un intreccio di esperienze personali, osservazioni geopolitiche e una certa libertà narrativa.
Il personaggio di Zhang Z. esiste davvero, così come il nostro incontro a Hua Hin e molte delle conversazioni che abbiamo avuto nel corso degli anni.
Altri dettagli — ambientazioni, pensieri interiori, gesti — appartengono invece al regno del verosimile, ma non per questo sono meno veri.

Non ho voluto scrivere un’analisi tecnica, né una cronaca oggettiva. Ho scelto la forma del racconto, perché a volte la finzione serve a illuminare meglio ciò che è reale. E perché, come mi ha scritto una volta Zhang: “Ciò che conta, non è solo la precisione di un dato. È la sua traiettoria umana.”

A lui, con rispetto.

19 maggio

Anantara – Hua Hin

 

 

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