C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la Thailandia era la spiaggia preferita della Repubblica Popolare. Pullman interi sbarcavano a Bangkok come una specie di esercito disarmato, ma non meno disciplinato. Camicie a fiori, cappelli a secchiello, guide con bandierina alzata e un’andatura compatta, fluida, senza crepe.
Non si muovevano individualmente. Sembravano un banco di sardine addestrate alla velocità e alla reverenza. Scendevano, fotografavano, salivano. Un tempio, un centro commerciale, un duty free. Poi tutti di nuovo sul pullman. Nessuno si perdeva. Nessuno faceva deviazioni. Era turismo sincronizzato. Turismo di Partito. Non nel senso che vi fosse ancora il libretto rosso in tasca, ma perché c’era qualcosa di profondamente organizzato, disciplinato, come una gita scolastica fatta da adulti che non hanno mai smesso di obbedire. Una coreografia collettiva, esatta, senza sbavature. Ogni movimento sembrava parte di un disegno più grande. Ogni visita, ogni acquisto, ogni selfie era già previsto.
E funzionava benissimo
Nel 2019, 11 milioni di turisti cinesi hanno visitato la Thailandia.
Nel 2024, poco più di 6,7 milioni.
Nel 2025, le stime più ottimiste parlano di 5 milioni.
La marea si sta ritirando.
Non di colpo. Ma con quel tono dolce e definitivo che hanno certi tramonti asiatici. Il silenzio di un’autocensura. La pausa che precede un addio. Qualcuno arriva ancora.
Qualche tempo fa, li ho visti vicino al National Stadium, diretti alla casa-museo di Jim Thompson. Quattro ragazzi pallidi, stravolti dal caldo, salvati solo dall’aria condizionata.
Fotografavano ogni angolo. Uno credeva che Thompson fosse un designer cinese emigrato in Florida. Sono usciti in silenzio, come da una sala yoga.
La sera, a Pattaya, gli stessi volti, stavolta illuminati dai riflettori del Tiffany Show. Applaudivano in estasi i travestiti più belli del mondo. Uno filmava tutto per Douyin. Un altro cercava il profilo Instagram di una ballerina che si faceva chiamare “Ice”.
Poi ci sono gli altri, quelli che non vedono templi né spettacoli. I pullman si fermano fuori città, in capannoni lucidi e senz’anima, dove si vendono oggetti per il benessere familiare.
Dispositivi, strumenti, comfort fisici. Una passione gialla per i materassi in schiuma. Sembra che a Pechino siano peggiori. Cose da spedire a casa come prova del viaggio. È un turismo commerciale, ma con ritualità religiosa. Ricorda l’Italia degli anni Sessanta, quando i pullman portavano i fedeli al Santuario di Loreto, e si tornava con un set di pentole inox da dodici pezzi.
Solo che qui il santuario non lo vedi proprio. Si arriva, si ascolta, si compra. Il souvenir è l’acquisto, non il ricordo. E il mondo, in fondo, non è cambiato poi tanto.
Poi c’è un’altra categoria ancora più riservata, che sfugge agli itinerari ufficiali ma si muove con gli stessi pullman, le stesse bandierine, la stessa compostezza.
A Bangkok, lungo l’ampia arteria di Ratchadaphisek, si susseguono edifici enormi, senza finestre, illuminati solo da luci al neon discrete: Caesar’s, Nataree (quando c’era), Poseidon — veri e propri templi del piacere asiatico. Grandi bordelli verticali, dove l’esperienza è coreografata, sequenziale, igienica.
Occidentali pochi. La frequentazione dei luoghi richiede una inclinazione orientale nella pratica del sesso. Non c’è verbo a corredo dell’azione idraulica, non si parla con la ragazza. Carne viva ed umana. La visita cinese è organizzata, rapida ed indolore. Quì non è raro vedere pullman di turisti cinesi fermarsi davanti all’ingresso del Poseidon. Scendono in fila, ordinati, come in gita scolastica. Entrano senza clamore. Alcuni tornano dopo mezz’ora, altri dopo due ore. Nessuno ride. Nessuno fotografa. È una tappa, non un’evasione. Una parte del programma di maschi cinesi senza donne. Un figlio a famiglia e le ecografie hanno sterminato milioni di donne. I bordelli sono la risposta alla demografia imposta del partito unico.
Nella Chinatown di Bangkok, i nuovi cinesi sono diversi. Non sono i discendenti yunnanesi o i teochew arricchiti col pesce secco. Sono cinesi della Cina. Giovani, silenziosi, ordinati. Scarpe bianche, t-shirt larghe, zaini anti-polvere. Entrano nei ristoranti storici e ordinano bubble tea. Fotografano le lanterne come se fossero fossili di una civiltà estinta — la loro, vista da fuori. Un’antropologia del proprio presente. Elegante. Assente.
E poi ci sono quelli che non viaggiano per svago, né per cultura. Viaggiano per mettere radici finanziarie. Dopo il crollo del settore immobiliare in patria, Bangkok è diventata una piccola Hong Kong alternativa. Più flessibile. Più liquida. Meno inquisitiva. Si possono ancora acquistare appartamenti con discrezione. Aprire conti correnti. Gestire movimenti senza che nessuno chieda “da dove provengano i fondi”. È una Thailandia senza predica, che funziona a bassa voce. Ho letto, non ricordo dove, che il 50% dell’economia thailandese sia in “nero”. Perfetta per chi non vuole spiegare troppo. Eppure, non è più tempo.
La Thailandia resta comoda, ma non più unica. Il Giappone offre sicurezza e yen deboli. Il Vietnam è fresco e promettente. La Corea è più costosa, ma più coerente, più “instagrammabile”. E la Cina stessa, oggi, spinge il suo popolo a restare a casa. A viaggiare dentro, non fuori. Come in certi ristoranti dove hai sempre mangiato bene, ma dove ormai sai già tutto il menu, e quando il cameriere ti chiama per nome, capisci che è tempo di cercare altrove.
14 giugno