L’articolo “ Deutschland  AG continues to pour billions into China” di The Economist del 9 gennaio 2021 riporta la notizia di come le aziende tedesche continuino ad investire in Cina. I contrasti tra il regime autocrate di Xi Jinping e l’Occidente, non sembrano riguardare il mondo delle imprese che continuano a guardare con interesse Pechino. L’editoriale ha approfondito il caso tedesco, il paese che più di ogni altro ha sviluppato i propri legami e la dipendenza con la Cina.

Paul Krugman, l’eminente premio Nobel dell’economia, ricorda come le aziende siano una cosa diversa dalle nazioni e dalle loro ragioni. I manager d’impresa hanno prospettive diverse. Sono gli economisti – non i manager – che pongono la questione del commercio estero, della bilancia dei pagamenti e del tasso di cambio al centro delle proprie riflessioni.

A partire dal 1989 la Cina ed il Messico hanno avuto uno sviluppo economico impetuoso, diventando le due principali fabbriche del mondo a stelle e strisce. Il meccanismo risultava essere semplice: i paesi avevano beneficiato di grandi investimenti esteri nella prospettiva di poter produrre a minori costi (la prospettiva delle multinazionali). Cina e Messico importavano macchine che producevano i beni per l’esportazione. Qui la storia si separa, il Messico ha visto la propria moneta apprezzarsi, ha migliorato la propria capacità di importare prodotti ed incontrare maggiori difficoltà nelle esportazioni.  Nel 1994 la stagione dei grandi investimenti messicani era finita, gli investitori si liberavano delle partecipazioni mentre il peso si svalutava. La bilancia dei pagamenti messicana tornava ad essere positiva, come a dire che la storia economica di un paese ricorda un pendolo soggetto ad oscillazioni e gravità. La condizione di base di questo meccanismo è che la moneta possa fluttuare a cambio libero.

La Cina ha avuto una storia diversa, perché lo yuan a cambio rigido ha mantenuto una valutazione controllata dalla banca centrale cinese. I consumi interni non sono cresciuti nella proporzione auspicata e così l’inflazione e importazioni sono rimaste al palo.

Il principio contabile di gioco a zero, di cui parla Krugman, ha fatto sì che l’equilibro tra la Cina e gli Stati Uniti in particolare, sia stato raggiunto con l’acquisto di titoli di stato americani. Come suggerire che un operaio cinese che guadagna 6000 $ dollari annui ha finanziato lo stile di vita e i debiti di un americano che ne guadagna oltre dieci volte.

Il controllo del tasso di cambio è risultato funzionale alle grandi corporation dei beni di consumo americani ed ai loro ordini e bilanci preventivi, si pensi che negli ultimi dieci anni il valore dello yuan è rimasto inalterato rispetto al dollaro statunitense, ma il differenziale del surplus commerciale è stato drenato dal governo cinese e dal partito comunista alle imprese di Pechino, saldando un’alleanza funzionale tra multinazionali e regime.

Il tema della sottrazione dei profitti d’impresa è risultato caro a George Soros, che ne ha spiegato il meccanismo nel memorabile articolo “China must fix the global currency crisis” sul Financial Times dell’ottobre del 2010.

La nostra creazione retorica pone due colti e rispettosi rivali della visione del mondo, Soros e Krugman, dalla stessa parte. La Cina assomiglia ad un’impresa piuttosto che ad uno stato che norma, vigila e regola. Nella pratica gioca una partita con l’Occidente con regole proprie e se mai ti dovesse invitare ad un tavolo, è perché sei nel menu.

14 febbraio

 

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