Ci sembra necessario, oggi più che mai, scrivere questo editoriale. Non sono i nostri Orienti quelli che raccontiamo qui: questi sono gli Orienti più vicini, più prossimi al cuore dell’Europa e delle sue contraddizioni. Non è un racconto di esotismo o di terre lontane, ma una riflessione su una guerra di prossimità che, sullo sfondo, lambisce anche il nostro destino. Una guerra che si combatte tra Israele e Hamas, ma che parla anche di noi, dell’Occidente e delle sue debolezze.

Perché questa guerra, pur svolgendosi a migliaia di chilometri dalle nostre città, ha un’eco che risuona fino alle nostre piazze e ai nostri parlamenti. Sul terreno si combatte con droni e raid aerei, ma nel cuore dell’Europa si combatte con le immagini, con la propaganda e con la paura. Hamas, attraverso la sua macchina comunicativa a due vettori, non mira soltanto a consolidare il consenso interno. Mira anche a manipolare il giudizio delle nostre opinioni pubbliche, a infiltrarsi nelle fratture sociali e culturali che già minano la coesione dell’Occidente.

Da un lato, Hamas alimenta un odio feroce verso Israele, radicando la propria legittimità su un’ideologia di annientamento e rifiuto. Dall’altro, offre al mondo occidentale una rappresentazione straziante della sofferenza di Gaza, conquistando la compassione e, talvolta, la complicità inconsapevole di chi, in Europa e in America, preferisce chiudere gli occhi davanti alla logica brutale della guerra. È una strategia antica quanto la guerra stessa: usare la retorica del martirio per indebolire la volontà dell’altro.

Ma vi è un altro aspetto, più scomodo e meno dichiarato, che rende questa guerra un tema di prossimità anche per l’Occidente. Milioni di musulmani – figli e nipoti di migrazioni economiche – oggi abitano le nostre città, partecipano ai nostri consumi, ma dove pochissimi tra loro condividono i nostri valori costitutivi fatti di libertà e pari dignità tra uomo e donna. In questo contesto, la guerra in Medio Oriente diventa una partita simbolica e ideologica che attraversa anche le nostre democrazie: un riflesso di tensioni interne che mettono in discussione la tenuta dei nostri “bastioni” culturali.

È un dato che l’Occidente fatica a elaborare: la presenza di queste comunità è una realtà sociale e demografica, ma anche un fattore politico che condiziona la nostra capacità di agire e di pronunciare giudizi netti. Così, la propaganda di Hamas trova terreno fertile non soltanto nelle periferie di Gaza, ma anche nei quartieri europei dove il disagio e il risentimento si mescolano alla fascinazione per una retorica di “resistenza” e di sfida all’Occidente stesso. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito cognitivo: migrano perché i loro paesi hanno fallito economicamente e socialmente, ma portano con sé un sistema di valori che sfida direttamente la nostra civiltà ed adottano la retorica di Hamas oggi, come fu Al Qaeda vent’anni fa.

La guerra è orrenda e si muore. E’ la natura stessa della guerra: un evento in cui la pietà cede il passo alla violenza e alla sofferenza. Ma non siamo di fronte a un duello cavalleresco combattuto ad armi pari e con codici d’onore condivisi. Hamas non ha scelto la via di un confronto militare aperto: ha scatenato un attacco terroristico, un atto di brutalità che non è un’azione di guerra nel senso classico, ma un’aggressione deliberata e mirata contro i civili. In questo quadro, Israele risponde con la logica della guerra totale, perché non vi è altra logica possibile contro chi non riconosce il diritto stesso di esistere.

E in questa dinamica, la sproporzione delle forze in campo – la superiorità militare di Israele rispetto a Hamas – non può essere motivo di giudizio morale. La parità delle forze consacra l’onore agli occhi dei semplici, ma se uno dei due contendenti dispone di maggior forza militare, ciò non lo rende moralmente colpevole. Non è la disparità di potenza a generare la guerra: è la volontà di annientare l’altro che la rende inevitabile. Chi ha scelto di aggredire non può lamentarsi poi della forza di chi si difende. È un principio elementare, ma spesso dimenticato nelle analisi emotive di chi osserva da lontano.

Questa verità è emersa anche nel caso che Altriorienti aveva già raccontato, quello del vignettista Michael Ramirez e della sua vignetta pubblicata sul Washington Post. Ramirez, premiato con il Pulitzer, mostrò con un tratto essenziale la realtà di Hamas: un leader che si nasconde tra donne e bambini, trasformando i civili in scudi umani. La reazione di indignazione che portò alla rimozione della vignetta – e alle scuse dell’Occidente – mostrò con chiarezza il ginepraio in cui ci siamo cacciati: la nostra incapacità di guardare in faccia la verità, accecati da un umanitarismo di superficie che finisce per legittimare la menzogna e la violenza.

È l’ipocrisia di un mondo islamico che considera il martirio come supremo valore: la morte non come evento tragico, ma come affermazione di sé, come consacrazione di una fede che disprezza la vita e la eleva a strumento di propaganda.

Dire che Israele combatte con durezza non è un’espressione di cinismo: è il riconoscimento della logica spietata che governa le guerre esistenziali. Hamas non cerca la coesistenza: cerca la negazione dell’altro, la sopravvivenza del proprio mito attraverso la morte dell’avversario. La guerra, dunque, è totale e feroce, e finirà solo quando Hamas sarà privato della capacità di combatterla o deciderà di capitolare e dissolversi.

La storia lo insegna: la guerra finisce solo con la sconfitta di chi l’ha resa possibile. Dalla Berlino del 1945 alla Tokyo del dopoguerra, la pace non è mai stata un compromesso con il regime che aveva scelto la violenza come unica via. È sempre stata la conseguenza della sconfitta di chi negava la pace. Né la cultura tedesca né quella giapponese vennero annientate: furono, anzi, liberate dal giogo ideologico che le aveva rese prigioniere. Allo stesso modo, la caduta di Hamas non significherà la fine di Gaza, ma la liberazione di Gaza da un potere che la tiene in ostaggio.

Solo allora – domani o tra una generazione – potrà rinascere un’idea di convivenza che oggi sembra impossibile. Perché la pace non si trova nei compromessi impossibili, ma nella fine di chi la nega. Se non si accetta la sconfitta – se non si accetta la logica inesorabile della capitolazione – la guerra diventa un ciclo senza termine. È la durezza di questo principio che la storia ci ha lasciato in eredità, e che la nostra epoca sembra faticare ad accettare.

E per noi, europei, è un’occasione per riflettere. Perché questa guerra di prossimità ci interroga anche sul significato delle nostre certezze, sulle fondamenta della nostra identità e sulla capacità di distinguere la pietà per chi soffre dalla cecità verso chi perpetua la guerra. È un monito severo: la pace non è mai gratuita, e la dignità non si difende senza il coraggio di nominarla. In questo crinale sottile, tra la memoria della storia e la fragilità del presente, forse possiamo ancora trovare il filo che unisce la logica e la speranza. E in quel filo, la possibilità che l’Occidente resti fedele a se stesso.

“Nella guerra, determinazione; nella sconfitta, resistenza; nella vittoria, magnanimità; nella pace, benevolenza.”
— Winston Churchill

1 giugno

SIR LAWRENCE ALMA-TADEMA – A COIGN OF VANTAGE, 1895 – L’OCCIDENTE SOGNATO

Il dipinto raffigura tre donne romane elegantemente vestite su una terrazza marmorea in cima a una scogliera, che si affaccia su uno splendido paesaggio costiero, probabilmente ispirato alla Baia di Napoli o all’isola di Capri. Il titolo deriva dal Macbeth di Shakespeare (Atto 1, Scena 6), dove Duncan descrive la posizione vantaggiosa di un castello come un “posto piacevole” con un “coign of vantage”, che significa un punto di vista strategico o favorevole, e fu poi reso popolare da Sir Walter Scott nelle sue opere. In quest’opera, cattura perfettamente la posizione elevata delle donne mentre guardano le galere che tornano al porto sottostante, forse dal commercio o dalla guerra.

La scena emana lusso e tempo libero, caratteristici del fascino di Alma-Tadema per l’opulenza dell’Impero Romano. Le donne, adornate con abiti vivaci verde oliva, beige, bianco e rosa, con ghirlande floreali, simboleggiano ricchezza e raffinatezza. Le loro pose rilassate e languide sul balcone enfatizzano un senso di riposo aristocratico. Una sfinge di bronzo, forse una replica della sfinge egizia di Villa San Michele a Capri, aggiunge dettagli storici e ancora la composizione. Il dipinto è celebrato per la sua grande attenzione all’accuratezza architettonica e storica, così come per la magistrale resa della luce di Alma-Tadema su varie superfici, in particolare il gradiente senza soluzione di continuità dove il mare incontra il cielo, creando una rappresentazione immersiva della vita classica.

Alma-Tadema era rinomato per il suo rigoroso studio dell’antica architettura romana, attingendo a reperti archeologici e visite a siti come Pompei ed Ercolano.

Comments

La vignetta di Ramirez

Ringrazio l’amico Max Ferrari per gli utili e fecondi scambi di opinioni sul tema della diffusione dell’Islam in Occidente 

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