Thomas Piketty era, all’inizio, la “speranza bella!”.
Un giovane economista elegante, capace di ridare al dibattito pubblico un lessico potente: capitale, rendita, diseguaglianza.
Il Capitale nel XXI secolo fu un successo mondiale, anche grazie all’illusione – dolce e pericolosa – che la giustizia sociale potesse essere misurata in percentuali, grafici e curve a campana ed aveva il pregio raro di far sentire intelligenti anche i lettori della Repubblica.

Ma col passare del tempo, Piketty si è trasformato. Dall’analista al predicatore,
dal professore al prete laico della colpa storica.
Ora, nel 2024, propone una nuova forma di redenzione fiscale, in un’articolo pubblicato sull’Internazionale delle scroso 15 maggio dal titolo “Perchè la Francia dovrebbe risarcire Haiti“, sostiene che i transalpini dovrebbero versare 30 miliardi di euro ad Haiti, per espiare la colpa coloniale. Un risarcimento, due secoli dopo, per lavare l’anima e l’onore della République.

Facciamo un passo indietro e lo faccio volentieri, perchè sulla schiavitù ad Haiti scrissi un capitolo della mia tesi di laurea, credo un milione di anni fa.

Quando ancora si chiamava Saint-Domingue, Haiti era la colonia più ricca del mondo.
Un’anomalia flamboyant: zucchero, caffè, indaco, cacao – tutto prodotto a ritmo industriale, a costo zero per i coloni francesi e al prezzo di centinaia di migliaia di vite africane. Ma Saint-Domingue non era solo piantagioni e frusta. Era Cap-Français, la “Parigi delle Antille”, con teatri, giornali, club filosofici, tipografie, biblioteche.
Era una società stratificata e dinamica, dove accanto ai grands blancs e ai petits blancs vivevano anche mulatti liberi, talvolta ricchi e colti, mandati a studiare in Francia, proprietari di schiavi, attivi nella vita culturale. Una borghesia mista, colta, curiosa, urbana.

Tutto questo – per quanto fondato sull’ingiustizia e funzionava. C’era ordine, produzione, infrastrutture. Il sistema era brutale, ma civile per chi era dentro il cerchio, la tragedia era che quel cerchio escludeva la maggioranza.

Poi venne la rivoluzione nera. Toussaint Louverture, Dessalines, la fine della schiavitù. Un atto eroico, sacrosanto. Eppure, subito dopo, il crollo. Lo Stato indipendente di Haiti non riuscì mai a stabilizzare un ordine. La nuova aristocrazia nera, lungi dall’essere liberatrice, riprodusse meccanismi feudali, diseguaglianze interne, etnocentrismo, brutalità. La violenza cambiò colore, non logica.

Da allora Haiti è il paese più povero dell’emisfero occidentale. E la colpa – piaccia o no – non può essere imputata a Parigi.

Quello che Piketty è un rito di espiazione pubblica, dove la Storia è ridotta a colpa, e la colpa a fattura da pagare.  Il colonialismo diventa un debito morale a nome di una nazione intera, senza distinguere tra chi ha dominato e chi ha ereditato solo la memoria stanca di un impero morto. Per lui, non importa che la Francia moderna sia fatta anche di figli di immigrati, di disoccupati, di persone che non hanno mai messo piede nei Caraibi. Conta che la pre-struttura sia colpevole, che l’Occidente debba pagare, che la restituzione sia l’unico modo per ripulire il passato.

Piketty è diventato l’apostolo della giustizia per procura, dove non conta chi ha fatto cosa, ma da quale lato della storia provieni. È la stessa logica che trasforma l’eredità culturale in peccato originale, e la complessità storica in una contabilità manichea: carnefici bianchi, vittime nere. Sempre ed ovunque. Dimenticando che gli schiavi di Haiti erano stati predati da regni arabi del Sahara e venduti sulle coste a mercanti europei. Tutti colpevoli, neri e bianchi. La storia non cambia Thomas … 

Paul Collier, da economista, ha smontato il sentimentalismo postcoloniale con i dati: molti dei paesi falliti non sono poveri per colpa dei coloni, ma per colpa delle élite che li hanno governati dopo. La narrativa vittimista serve solo a coprire la corruzione, la predazione interna, l’assenza di visione. E di responsabilità. Lo leggo e penso a Mugabe.

Ma più di tutto abbiamo Pascal Bruckner, il filosofo francese autore de Il singhiozzo dell’uomo bianco. Secondo lui, l’Occidente vive in uno stato di penitenza permanente.
Ogni crimine del passato è amplificato, ogni merito è negato, ogni giudizio è sospeso, per paura di apparire ancora coloniali. Questa auto-flagellazione paralizza ogni discorso serio sulla modernità, i diritti, la libertà.

Contro il dogma del risarcimento eterno, c’è una voce scomoda più di altre: Bruce Gilley, autore di The Case for Colonialism. Accusato, insultato, censurato, eppure lucido come una lama, da noi citato spesso perchè ci conforta e rasserena.

Scrive Gilley:

“L’ideologia postcoloniale ha prodotto più abbandono e stagnazione che riscatto. Demonizzare il passato è diventato un alibi per il fallimento del presente.”

Ed è proprio questo il nodo. La retorica riparatoria proposta da Piketty e dai suoi simili non chiede agli ex colonizzatori di fare i conti con il passato, ma di pagare per coprire le macerie del presente. E quelle macerie non sono solo frutto dell’oppressione coloniale, ma – in larga parte – del fallimento dei nuovi regimi post-indipendenza. Haiti, come molti Stati africani e caraibici, non è stata distrutta dalla Francia. È stata distrutta dalla sua classe dirigente. Dalla nuova aristocrazia nera, nazionalista e corrotta, che ha divorato ogni istituzione, ogni infrastruttura, ogni possibilità. Il risarcimento, allora, diventa una scusa storica, una droga morale: ci si accontenta di accusare chi non può più difendersi, pur di non guardare in faccia il fallimento attuale. Gilley non difende i crimini coloniali. Ma rifiuta l’infantilismo storico di chi vuole riscrivere la storia come un romanzo moralista a lieto fine, dove ogni debito può essere saldato con un assegno e una cerimonia in costume. 

E infatti nessuno oggi ha il coraggio di dire l’ovvio: noi europei non abbiamo alcuna responsabilità per il mondo dei Duvalier. Non abbiamo costruito i Tonton Macoute. Non abbiamo ordinato decenni di dittatura, clientelismo e terrore domestico. Quella è una tragedia tutta interna alla storia di Haiti, figlia della sovranità, non del colonialismo.

Eppure, secondo Piketty, dobbiamo comunque pagare e Se accettiamo la sua logica di  – quella del risarcimento retroattivo – allora si apre l’abisso del paradosso. Perché chi risarcisce chi? E fino a quando? E soprattutto: con quale autorità? Con quale criterio? Con quale legittimità morale, storica, civile?

Ecco allora alcuni risarcimenti imminenti, coerenti con il principio:

  • L’Italia dovrà risarcire gli Etiopi ed i Libici, forse gli Austriaci per il basso Tirolo, ma poi gli stessi austraci dovranno rendere conto della lora occupazione di Milano e Venezia.

  • L’Iran dovrà risarcire i greci per Maratona e Salamina, però cosa facevano nell’Egeo?

  • La Mongolia verserà un indennizzo globale per i massacri di Gengis Khan, in Yuan o cavalli.

  • Il Giappone pagherà alla Corea e alla Cina, ma gli americani hanno gettato l’atomica, necessità o esagerazione? Il dubbio vale un processo ed un probabile risarcimento.

  • Gli Aztechi saranno denunciati dai discendenti dei sacrificati. Class action di 30 tribù. Netflix in trattativa per i diritti. Gli spagnoli dovranno pagare gli aztechi, così da aprire una possibile compensazione tra le tre parti.

  • La Svizzera restituirà secoli di neutralità perchè risulta che ci abbia lucrato, ma i conti da quelle parti sono difficili da vedere. Faccenda complessa sul lago Lemano.

  • Israele e Palestina. E’ semplice! la colpa è rimane degli antichi romani, che hanno turbato gli equilibri regionali cacciando gli ebrei, che tormando hanno forse destabilizzato l’area. Che gli abitanti dell’Urbe rimborsino tutti.

Tutto sarà debito e colpa. Ogni storia, un reato. Ogni identità, un crimine.

E in questo teatrino di responsabilità inflazionate, nessuno sarà più colpevole davvero, né innocente per caso. Tutti vittime. Tutti carnefici. Tutti pronti a pagare. Nessuno pronto a capire.

23 maggio

Thomas Piketty al lavoro

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